I ritmi della terra, del sole e dell’uomo

Parafrasando Dante all’inizio del 24° canto dell’Inferno l’imminente arrivo di Febbraio viene così descritto  «In quel periodo dell’anno appena iniziato, quando il sole sotto il segno dell’Acquario riscalda un poco i raggi e le notti iniziano ad accorciarsi, la brina in terra si disegna come fosse neve, ma con tratti di breve durata».

Le giornate già si sono allungate a partire dal 22 dicembre, con il solstizio d’inverno,  e si attende  il mese di “Febbraio, Febbraietto, corto, corto, maledetto”, per citare un detto popolare, che mette in guardia da improvvise temperature rigide e dalle gelate.

Anche gli antichi temevano il gelo. Tra il 22 e 26 gennaio nell’antica Roma avevano luogo le  Feriae sementivae, festa dedicata alla terra durante la quale si  invocavano le divinità affinché le sementi fossero protette dalle gelate e potessero germogliare.

Gennaio è il mese dedicato al dio Giano provvisto di due volti, uno che guarda al passato e l’altro verso il futuro, simbolo emblematico degli inizi, siano essi rappresentati da attraversamenti e passaggi mediante porte, ponti o sorgenti.

Giano, dio degli inizi

 Il dio e il mese a lui attribuito fu associato all’inizio dell’anno, come si intende ora, a partire dal 153 a.C. quando i consoli e i magistrati romani entravano in carica per i dodici mesi successivi.

Con i falò di Sant’Antonio, accesi intorno al 17 Gennaio, si propiziano tuttora i raccolti, che nelle aree più fredde d’Italia avverranno dopo la semina in Gennaio di verze, cavoli, broccoli, rucola, sedano e altre verdure.

Il legame della natura e i suoi ritmi con l’agricoltura e la realtà contadina è quindi strettamente connesso dalla notte dei tempi in ogni parte del mondo. Da quando l’uomo, non più solo nomade e raccoglitore, comprese che diventare stanziale portava con sé alcuni vantaggi. In primis, l’opportunità di dedicarsi alla cura della terra e degli animali in modo più efficiente e produttivo, agevolando scambi, baratti e ricchezza.

Ne consegue che l’agricoltura è sempre stata una delle principali risorse che hanno portato al benessere, fornendo un’insostituibile fonte di sopravvivenza per l’uomo.

Intorno ai prodotti della natura, siano essi coltivati o cresciuti spontaneamente, si sono sviluppati nei millenni e nei secoli svariati riti e tradizioni popolari, utilizzi curativi, decori artistici, produzioni tessili e artigianali. Non sono mancate nemmeno sperimentazioni pionieristiche che nulla hanno a che fare con organismi geneticamente modificati. Un esempio lo fornirono i Gonzaga, Signori di Mantova, i quali si dedicavano alla coltivazione di aranci in Val Padana.

Proiettati nei tempi moderni, densi di inquietanti “proposte alimentari” sintetiche ed esigenze più o meno autentiche rivolte al rispetto dell’ambiente, va ricordato che la fotosintesi, processo vitale per la stragrande maggioranza di ogni tipo di pianta, permette l’assorbimento dell’anidride carbonica e il rilascio di ossigeno.

Quindi, non solo olmo, tiglio, edera, acero, betulla, ginkgo biloba, alloro, corbezzolo, ma anche ciliegio, melo, pesco, prugno e albicocco contribuiscono a pulire l’aria.

Nel frattempo, gettando lo sguardo ai mesi a venire e attingendo alla tradizione popolare, si sappia che è buona cosa tenere in tasca qualche noce per far sì che il vento non disperda il grano e gli altri cereali durante la trebbiatura, vale a dire tra giugno e luglio.


I cento anni della Callas

Una voce formidabile, venuta alla luce già nell’infanzia, ascoltando e cantando sulle note di Rosa Ponselle, soprano classe 1897, e di tre canarini.

Una personalità complessa, condizionata dal rifiuto da parte della madre che desiderava un figlio maschio. La costante propensione materna a usare lei, Cecilia Sophia Anna Maria Kalegeròpulos in arte Maria Callas, al fine di perseguire i propri interessi, sfruttando la “gallina dalle uova d’oro” sin dalla sua tenera età.

Un grande senso di rivalsa, inseguendo e ottenendo il successo, non solo in campo artistico ma anche nel possesso di quei beni simboli e stile di vita comunemente identificati con l’ascesa nella scala sociale; gioielli, tanti, preziosissimi e appariscenti, elegantissimi e sfarzosi abiti di alta moda, frequentazioni da jet set, un matrimonio con un uomo facoltoso, interrotto per diventare l’amante di un ricco e avventuriero armatore che poi la lascerà per un’altra donna. Tutti elementi che non mancherebbero nella più classica delle opere teatrali cantate e musicate.

Una forte volontà e abnegazione nell’apprendere e progredire nel bel canto.

Ma soprattutto un grande bisogno di amore, mai realmente appagato, che colmasse l’ancestrale vuoto affettivo che l’aveva accolta dalla nascita.

Questa, in sintesi, la panoramica su Maria Callas, di cui ricorre il centenario della nascita il 2 Dicembre di quest’anno.

Indimenticabile soprano, passata alla storia come La Divina, che riuscì a fare della sua voce lo strumento di immersione totale nell’arte della musica e dei virtuosismi vocali.

Matilde, l’indomita rossa

Matilde di Canossa

Non tutti i nobili del Medioevo si dedicavano di buon grado alla guerra.

Alcuni di loro, forse molti di più di quanto si possa pensare, avrebbero preferito e anelato il ritiro nella pace dei chiostri tra le mura dei monasteri.

Matilde di Canossa, nonostante fosse battagliera, coltivava un simile anelito. Appartenendo a un elevato lignaggio, la posizione di badessa avrebbe probabilmente fatto al caso suo. In fin dei conti non le sarebbe andata poi così male, per una donna dinamica come lei. Avrebbe potuto continuare ad amministrare i suoi feudi, occuparsi di questioni giuridiche ed economiche, dedicandosi a faccende pratiche – ammesso che ne avesse avuto voglia – e non solo alla spiritualità. 

Infatti, superati i 40 anni, dopo due matrimoni falliti e senza eredi, quell’anelito si stava quasi trasformando in una possibilità concreta. Se non fosse stato per papa Gregorio VII, grande amico e sostenitore che la dissuase e la convinse a restare sulla scena politica, la sua vita avrebbe cambiato decisamente corso.

Evidentemente, il senso del dovere ebbe la meglio. Lo stesso per cui sposò dapprima un uomo, Goffredo il Gobbo, di cui non era innamorata e più tardi un sedicenne, Guelfo di Baviera, di 27 anni più giovane di lei, che a quanto dicono le cronache del tempo non apprezzò la sua femminilità matura.

Entrambi, ovviamente, sposati per “ragion di Stato”. vale a dire per conservare e ampliare i propri domini.

Dal primo se ne andò, facendo armi e bagagli, e non cambiò opinione quando lui  la raggiunse per convincerla a ritornare.  Del secondo, non si fece scrupolo di cacciarlo in  malo modo, sentendosi rifiutata. 

Ciò nonostante, tutta la vita di Matilde sembra seguire il file rouge di un obbligo morale in cui religiosità e ideale politico si mischiavano, agli albori dei grandi cambiamenti della società che da feudale si avviava a organizzarsi in Comuni autonomi, con tutto ciò che ne conseguiva.

Ogni cambiamento, si sa, porta con sé grande fermento, accesi contrasti, strenua difesa del vecchio modello in contrapposizione a quello che va manifestandosi.

Così, Matilde fu fervente e convinta sostenitrice del mondo a cui aveva sempre appartenuto; quello feudale a favore del potere papale rispetto a quello imperiale.

Ma muoversi sulla scena politica e privata senza la presenza di un marito era una condizione molto scomoda e impegnativa che poteva suscitare sospetto, stizza, perfino invidia e malignità.  Tanto che Matilde si prese l’epiteto di femmina pettegola e ficcanaso per interessarsi di cose che non le competevano. Nello specifico, di politica. Altre dicerie insinuarono che l’amicizia  con papa Gregorio VII celasse in realtà una relazione amorosa. Per contro, i suoi seguaci le conferirono un alone di santità nella costante battaglia a favore del potere papale. 

Reazioni, del resto, che non sarebbero tuttora rare, bensì subdolamente serpeggianti nell’eterno stereotipo;  o moglie, o santa, o mondana.

Castello di Bianello (Reggio Emilia), insediamento CanossianoCastello di Bianello (Reggio Emilia), insediamento Canossiano

Fatto sta che la vita per Matilde non fu mai facile, confrontandosi spesso con situazioni alquanto impegnative, di isolamento in ambienti selvaggi e solitudine. Una vita ben lontana da quella che una tipica contessa del tempo avrebbe sperimentato.  Molteplici furono le circostanze in cui la donna doveva essersi sentita sola nei suoi guai. Subito dopo l’assassinio del padre, che avvenne quando lei aveva quasi sei anni, perse il fratellino e la sorellina.

La piccola Matilde imparò presto l’arte della sopravvivenza.

Davanti a sé, un futuro imminente di responsabilità e grane da affrontare insieme alla madre. Il fatto poi che quest’ultima fosse unita con legami di parentela a regnanti germanici, non facilitava di certo la gestione dell’eredità capitata all’improvviso tra capo e collo.

Entrambe avevano ereditato il pesante fardello dei feudi Canossiani in un periodo turbolento, contraddistinto da feroci lotte per le investiture, che vedeva contrapposti il papato e l’impero nella nomina dei propri alti rappresentanti. Entrambe avrebbero preferito rinunciare a tutto e chiudersi in monastero.

All’età di 30 anni, rimasta orfana di madre, toccò a Matilde occuparsi di tutto.

Fu coinvolta direttamente, dal 1080 al 1092, nella lunga e lacerante guerra dalla parte del papa contro l’imperatore. Una guerra, costellata da vittorie, ma anche cocenti sconfitte. Fu accusata di seminare odio tra gli stessi cristiani e dovette confrontarsi con vassalli sempre più interessati a rafforzare il proprio potere, piuttosto che rincorrere i suoi stessi ideali. 

Nel corso degli anni, poi, molti dei suoi sostenitori la tradirono o morirono. 

Sempre in viaggio in lungo e in largo nei suoi vasti possedimenti, dalle terre a nord delle rive del Po fino a quelle laziali, accompagnava le sue truppe. Riposava o trovava rifugio nelle sue numerose, austere fortezze, disseminate su impervie alture o circondate da foreste intricate. A volte era costretta perfino a dormire all’addiaccio, come un soldato.

La storia la racconta come organizzatrice e fautrice di sanguinose battaglie, ma anche come donna soave, raffinata, a tratti malinconica.  Di certo, dotata di un forte spirito di sopravvivenza e autodeterminazione. 

Alla fine, la guerra intrapresa contro l’imperatore, Matilde la vinse, a modo suo.

                                          Castello di Rossena, a difesa di Canossa

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Nell’ottobre del 1092 la rocca di Canossa, assediata dalle truppe imperiali e difesa da quelle numerose che la contessa era riuscita a richiamare nell’ultimo, decisivo tentativo di non farsi sopraffare, sparì improvvisamente, avvolta dalla nebbia. 

Enrico IV, che vi era giunto agguerrito per giocarsi il tutto per tutto, fu costretto a far ritirare i suoi soldati. disorientati e smarriti di fronte alla fortezza fantasma. 

Nel mese di luglio dell’anno 1115 fu la contessa di Canossa a scomparire per sempre, o quasi. 

Dopo una vita in bilico tra l’essere belligerante per vocazione familiare, ideale religioso e politico o senso di dovere, e diventare monaca, aveva realizzato il suo intento; ritirarsi in monastero per condurre una vita contemplativa. forse riflettendo sugli orrori della guerra a cui aveva assistito in prima persona. 

Matilde trascorse tra la pace dei chiostri, ma afflitta dalla gotta, malanno dei benestanti, gli ultimi sprazzi della sua vita. 

La sua salma, probabilmente trattata per renderla eternamente presente, si svelò ancora intatta secoli dopo.

In tre circostanze, nel 1445, agli inizi del 1600 e nel 1644, fu esposta al pubblico che ne rimase impressionato per lo stato di conservazione. 

Tra i capelli ingrigiti della donna, trapassata alla soglia dei settant’anni, spiccavano ancora ciocche di colore rossastro.

Dalle stelle alle stalle

Nel silenzio della calura pomeridiana estiva la musica e le parole della famosa “Come vorrei che tu fossi qui” ,  aleggiavano, sparate a palla sul confine agro-cementizio della metropoli.

Pochi metri più in là, oltre il lato urbano, numerosi ettari di terra sopravvivono,  che  per sfatare il mito della metropoli  fredda, crudele e frenetica, vengono ancora lavorati  e coltivati con passione e abnegazione.

Tanto  che l’odore dello stallatico autentico è stato ben accettato dalle genti urbane al di là dal confine agricolo.

Tra alberi secolari, o quasi, e correnti naturali, l’antica cascina che, oltre ad occuparsi  dell’attività agricola,  alleva mucche, vende al dettaglio latte appena munto e yogurt, a detta di molti, strepitoso.

Quando il brano, udibile da tutti lì intorno, era giunto al termine e seguito dagli applausi registrati, si è levato alto  un muggito che pareva proprio di apprezzamento.

Era un “muhhhh” proprio convinto, quasi a dire, – Che, ce lo fai sentire ancora?

Resta ignota l’origine della musica, che a detta dei proprietari dei quadrupedi non proveniva da loro.

Chissà, forse il prossimo yogurt sarà ancora più buono.

Quando gli altri… – Seconda parte Mescolanze di popoli e tribù

Distribuzione degli antichi popoli italici prima di Roma

Praticamente, un puzzle, per il quale non basterebbero migliaia di tessere nel tentativo di comporlo. Questo, era il variegato panorama in cui gli antichi popoli italici pre-romani si muovevano e abitavano, si frammentavano e si fondevano, si combattevano o convivevano pacificamente, dominavano o assimilavano le reciproche peculiarità.

Ma per fare un po’ di ordine, la distribuzione geografica dei vari popoli, costituiti principalmente in tribù e clan parentali, destinati a separarsi e mescolarsi per la ricerca di nuove risorse di sostentamento, migrazioni rituali o dissidi con altri gruppi confinanti e nuovi occupanti si può così riassumere;

Ceramica falisca

Parlavano lingue indo-europee i Latino-Falisci, gli Osco-Umbri – altrimenti detti Umbro-Sabelli – i Veneti, i Siculi, i Greci, i Celti.

Ai gruppi che parlavano lingue non indo-europee appartenevano gli Etruschi, i Reti, i Piceni settentrionali, i Sicani, gli Elimi, i Sardi.

Il fatto che una determinata popolazione non parlasse una lingua indo-europea era dovuto essenzialmente da due fattori: l’origine medio-orientale o l’utilizzo di un idioma proto-indoeuropeo, vale a dire precedente a 10.000/15.000 anni a.C., prima della diffusione del medesimo ceppo linguistico indo-europeo. Ciò sarebbe stato causato da un certo isolamento geografico in cui viveva una determinata popolazione o dalla sua attitudine a mantenere intatta la lingua originaria, nonostante i contatti con altri gruppi di popolazioni parlanti lingue indo-europee.

Tra le popolazioni più antiche stanziatesi in Italia si annoverano i Falisci e gli Osco-Umbri, tra il 13° e 12° secolo a.C.

Ubicati nell’attuale provincia di Viterbo, i Falisci erano abili creatori di manufatti in ceramica.

Italia settentrionale

Fino a cinquant’anni fa la storia dell’Italia pre-romana e dei suoi popoli non era ben definita, nonostante fossero già avvenute scoperte a tal riguardo nei secoli precedenti. La civiltà di Golasecca, che popolava l’area compresa tra Lombardia occidentale, Piemonte orientale, Canton Ticino e Val Mesolcina, nell’attuale Svizzera italiana, ha contribuito a gettare luce su quell’antico passato.

Golasecca è un piccolo comune in provincia di Varese, adiacente al fiume Ticino e al Lago Maggiore, dove a partire dall’inizio del  1800 si sono iniziati a studiare alcuni ritrovamenti di una cultura, che poi ha interessato anche altre località limitrofe e non.

Fiume Ticino

Presente nell’arco del millennio intercorso tra il 14°sec. a.C. e il 4° sec. a.C. la civiltà di Golasecca fu contraddistinta da un’abbondante produzione di manufatti in metallo, che venivano commercializzati oltralpe, verso nord, nell’Europa centro-occidentale, ma anche in Etruria e nel Mediterraneo. Un commercio, questo, che fu probabilmente incentivato dalla propensione al “nomadismo” degli artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli. La non sedentarietà di questi fabbri ante-litteram è una tradizione sopravvissuta fino al secolo scorso in varie zone d’Italia.

Il territorio interessato dalla civiltà di Golasecca inglobava al suo interno montagne, valli e colline, con relativi punti di passaggio e valichi, ma anche laghi e laghetti, alta e bassa pianura Padana, ampiamente irrigata da fiumi, risorgive e canali naturali che ne assicuravano la grande ricchezza di acque.

I Golasecchiani sono ritenuti i più antichi Celti d’Italia, arrivati ben prima della discesa dei Galli, capeggiata da Belloveso, che fondò Milano agli inizi del 4° sec. a.C.  

A proposito di Celti…

Provenienti dall’Asia, i Celti – che i Romani chiamarono genericamente Galli – erano costituiti da diversi popoli indoeuropei.

A partire dal 2.000 a.C. si stanziarono nelle aree dei fiumi Reno e Danubio, per poi sparpagliarsi in numerose tribù, tra l’800 a.C. e il 600 a.C. in Francia, Svizzera Germania, Isole Britanniche, penisola iberica e nei Balcani, fino a scendere nell’Italia settentrionale e centrale.

Brenno, capo dei Galli Senoni

Fra i Celti discesi in Italia, vi furono gli Insubri – gli originari Golasecchiani – nella pianura  Padana, i Cenomani, nell’area di Brescia e Verona, i Libui e i Salluvi  presso il fiume Ticino, dove si unirono ai Levi, antico popolo ligure, i Boi e i Lingoni, che occuparono il territorio tra il Po e l’Appennino, e i Senoni, presenti tra le Marche e la Toscana.

Saranno proprio i Galli Senoni ad attaccare Roma nel 390 a.C.

Erano Celti anche i Salassi, localizzati in Piemonte, nel Canavese, e in Valle d’Aosta presso l’alto corso della Dora Baltea. Così come i Leponzi, provenienti dal territorio del massiccio del San Gottardo in Svizzera, i quali controllavano la via commerciale costituita dalla valle del Ticino, che metteva in comunicazione l’attuale Svizzera meridionale e l’Italia settentrionale. Popolavano, quindi, il nord della Lombardia e il Canton Ticino.

Gli Orobi si stanziarono tra Como e Bergamo, mentre i Taurini occuparono la parte centrale del Piemonte, adiacente ai fiumi Po e Doria Riparia.

Passo del San Gottardo

Inevitabili, furono le mescolanze celtiche con popoli più antichi presenti sui territori occupati, ad esempio quelle celto-liguri  nel nord-ovest d’Italia.

I Liguri abitavano, infatti, a partire dal 3.000 a.C., l’area tra il fiume Rodano che scorre e sfocia nel Mediterraneo, poco più oltre l’attuale confine italo-francese, e il tratto appenninico a nord-ovest della Toscana, identificato nelle Alpi Apuane. In seguito, la presenza dei Liguri rimase circoscritta al Piemonte e alla Liguria.

Le origini dei Liguri, prima della mescolanza con i Celti, sono in dubbio tra la provenienza dall’Europa occidentale o le coste iberiche, a seconda dei diversi resoconti degli antichi autori classici.

Alpi Apuane

Nell’Italia nord-orientale, le zone montuose del Trentino Alto Adige e le aree limitrofe erano popolate dai Reti, le cui origini secondo alcune fonti classiche sarebbero etrusche. I Reti si sarebbero rifugiati nell’area di loro pertinenza, sotto l’incalzante pressione da parte dei Celti, a seguito del loro predominio sugli Etruschi presenti nel nord Italia.

A sud e ad est dei territori abitati dai Reti, erano stanziati i Veneti fin dal 12° sec. a.C., espandendosi oltre l’attuale confine italiano con Austria e Slovenia. Seppur di origine indo-europea, gli antichi Veneti non appartenevano, in senso stretto, né alle genti italiche né a quelle celtiche. Sempre secondo alcune fonti classiche, i Veneti erano migrati dall’Asia, tanto che venivano definiti anche “Illiri”. Questi ultimi, infatti, dalla penisola balcanica si erano spinti fino all’Asia minore.

Un’altra mescolanza celtica ebbe luogo intorno al 6° sec. a.C. con l’antica popolazione dei Camuni, localizzata nella Val Camonica (v. Prima parte di Quando gli altri… ).

All’espansione etrusca nel nord Italia, iniziata verso la fine del 9° sec. a.C., un articolato intreccio di popoli e mescolanze, in primis quelle celto-liguri, popolava l’intera area interessata.

Continua…

Quando gli altri costruivano piramidi e navigavano con le stelle – Prima parte

La storia degli antichi popoli italici affonda le sue radici nel Neolitico (8,000/4.000 anni a.C.) con la presenza di genti autoctone, alcune provenienti forse dall’Asia Minore e dal Mar Egeo, che parlavano lingue non indo-europee.

Il Mar Adriatico e le Alpi orientali divennero poi i corridoi naturali attraverso i quali, dal 2.000 a.C., popolazioni di lingue indo-europee originarie del centro ed est Europa giunsero in Italia.

Decisivo fu, in seguito, il contatto con culture più progredite del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente, che arrivarono via mare a partire dal 1.500 a.C.. Dapprima furono i Fenici, abitanti delle coste asiatiche del Mediterraneo, che fondarono colonie in Sicilia e Sardegna, seguiti dai Greci che colonizzarono il sud Italia, Sicilia compresa.

Elmo, 9° sec. a.C.

Dal 750 a.C. un’altra cultura importante andò delineandosi: quella etrusca, probabilmente originaria della regione turca dell’Anatolia, che visse il suo momento di massimo splendore in Italia intorno al 500 a.C.

Fenici, Greci ed Etruschi si spartirono, non senza scontri violenti e sonore sconfitte, la supremazia sulle rotte commerciali del Mar Tirreno.

Questo, in sintesi, è l’inizio del lungo percorso che intrapresero gli antichi popoli italici prima dell’unificazione sotto il dominio di Roma, conclusasi nel 1° sec. a.C.

Popoli molto diversi fra loro si trovarono così, nel corso dei secoli, ad abitare il medesimo territorio. La ricostruzione delle loro caratteristiche e vicissitudini ci è stata tramandata dagli antichi autori classici, i cui resoconti però non sono privi di risvolti propagandistici a vario titolo.

A gettare ulteriore luce sulle diverse realtà antiche pre-romane tornano utili i ritrovamenti, sempre potenzialmente in attesa di essere svelati, di vasellame, oggetti di uso comune, armi, gioielli, statue, effigi, iscrizioni, sepolture, opere architettoniche ecc.

Ma per comprendere il perché del fatto che le antiche genti italiche iniziarono il loro percorso evolutivo con circa due millenni di ritardo rispetto a quelle che abitavano il Mediterraneo orientale e il Vicino Oriente, è utile sapere alcuni antefatti.

Intorno al 6.500 a.C. le popolazioni che abitavano l’Occidente erano essenzialmente di natura nomade, in quanto raccoglitori e cacciatori alla costante ricerca di risorse per il sostentamento.

Contemporaneamente, nel Vicino Oriente si sviluppava l’agricoltura e la relativa necessità per l’uomo di divenire stanziale, con tutto ciò che ne è conseguito (sviluppo e fiorire dell’allevamento, della pastorizia, della produzione di svariati manufatti, della lavorazione dei metalli, del commercio ecc.).

Ma un altro momento decisivo che avrebbe segnato il corso degli eventi era già accaduto.

Camuni – graffiti

Circa 10.000 anni a.C. volgeva al termine l’ultima glaciazione, liberando grandi quantità di acque che resero fertili i territori precedentemente imprigionati dal ghiaccio, favorirono la crescita di boschi e foreste con relativa presenza di animali da cacciare. Uno di questi era il Nord Italia dove almeno a 8.000 anni a.C. risale la presenza in Valcamonica dei Camuni. Si trattava di una delle più antiche popolazioni indo-europee giunte nell’Italia settentrionale, dove abitò dapprima come società nomade e successivamente stanziale, a partire dal 3.000 a.C.

A glaciazione ultimata, intorno al 5.000 a.C., il continente europeo era abitato da nomadi cacciatori, pescatori e raccoglitori, provenienti dalle aree più disparate; Mare del Nord, Mar Baltico, Nord del Mar Nero, i fiumi Reno, Danubio, Vistola, gli Urali, il Volga, il Mar Caspio. Tuttavia, condividevano lo stesso ceppo linguistico – quello indo-europeo – parlato da 15.000 / 10.000 anni a.C. e diffuso fino all’India, che si frammentò nel quinto millennio a.C. con il delinearsi delle popolazioni oggi note.

Questa, è la premessa per introdurre l’Italia pre-romana, nel tentativo di districarsi in una storia tanto frammentata da sembrare un rompicapo, suddividendo i popoli italici antichi in indo-europei e non indo-europei. Così, tanto per tracciarne le origini.

Con l’unificazione romana, vennero uniformate in un unico modello culturale le numerose separazioni, mescolanze e sovrapposizioni tra genti, tribù e stirpi diverse che popolavano l’Italia nei secoli precedenti.

Ma sarà poi vero? Oppure, un po’ di verità sta nel fatto che l’essenza di un popolo è destinata a sopravvivere nonostante tutto, riaffiorando nei dialetti parlati dai posteri, nei tratti somatici e caratteriali, nei resti delle tradizioni degli antichi abitanti che occupavano determinate regioni, costituendo un panorama variegato sparso su un territorio più esteso.

Sì, perché per la penisola e le sue isole è passato un po’ di tutto, soprattutto per la collocazione strategica di crocevia tra nord e sud, est ed ovest, appetibile in ogni circostanza, tempo e stagione.

Continua…

Dante settecento anni dopo

C’erano una volta i guelfi e i ghibellini, i primi dalla parte del papato, gli altri dalla parte dell’imperatore.

Ma poi i guelfi si divisero in bianchi e neri, i primi vedevano sempre meno di buon occhio l’ingerenza del papato nella vita politica, però non erano proprio come i ghibellini, i neri invece tolleravano per interesse l’incondizionato controllo papale nella politica e nell’economia.

Questo era lo scenario nel quale Dante Alighieri nacque, visse, peregrinò e morì da esiliato.

Castello di Poppi, Casentino

E proprio l’esilio fu la molla che fece scattare la stesura della Comedia, poi ribattezzata Divina Commedia da Boccaccio.

Quel titolo, un po’ salvava  l’opera e il suo autore da quell’alone di eresia, più politica che religiosa a dire il vero, ma che non evitò il rogo delle sue precedenti opere, una volta che i guelfi neri si ripresero Firenze.

E al rogo ci sarebbe finito anche lui se fosse rientrato a Firenze, tornando da Roma dove Papa Bonifacio VIII apposta lo aveva trattenuto più del necessario.

All’inizio si erano inventati un’ammenda da pagare, oltre a varie confische e altri capi di accusa, per “redimere” l’avversario, che si guardò bene di onorare la prima, e di sottoporsi al processo per le seconde.

Forse, oltre ad essere un guelfo bianco, Dante stava sulle scatole a molti anche per la sua appartenenza ai Fedeli d’Amore, confraternita che si riuniva in segreto, in opposizione alla corruzione della Chiesa, utilizzando un linguaggio criptico comprensibile solo agli adepti, nel quale “piangere” significava “scappare” ad esempio.

All’inizio del suo esilio Dante cercò ospitalità non troppo lontano da casa, a Pistoia, in Lunigiana e nel Casentino.  

Con gli altri guelfi bianchi esiliati si unì anche ai ghibellini, nella speranza di poter tornare presto a casa, ma fu tutto vano.

A un certo punto, Dante decise di continuare a fare l’esiliato per conto suo, buttandosi a capofitto nella sua Comedia.

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, di ritorno da Venezia dove si era recato nel ruolo di ambasciatore,  morì a 56 anni  in preda a una febbre malarica.

Dopo settecento anni ancora lo si ricorda,  e si capisce il perché.

Basta leggere o rileggere la sua Comedia, tragicamente o beffardamente sempre attuale.

Anche dopo sette secoli, o giù di lì.

Il lume della ragione, ovvero l’Illuminismo

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A un certo punto della storia, l’oscuramento della ragione, perpetrato dal fanatismo politico e religioso, non è più stato tollerato, soprattutto dal ceto emergente della borghesia.

L’esigenza di andare oltre i dogmi del tempo cominciò a serpeggiare alla fine del Seicento in Inghilterra, in contrapposizione all’intransigenza moralistica del puritanesimo, a prova del fatto che la storia è come una fune che si tende. Quando viene tirata dalla parte dell’assolutismo ideologico, non può che avere come logica conseguenza l’azione inversa che la tende verso la libertà di pensiero.

Dall’Inghilterra, l’illuminismo si diffuse in tutta Europa, assumendo caratteristiche locali, legate alla situazione politica e sociale dei vari stati in cui approdò.

lume 1

Comune denominatore era quello di usare la ragione per illuminare il buio della superstizione, dell’ignoranza e il cammino dell’uomo verso lo stato naturale e libero del discernimento, anziché mantenerlo condizionato e soggiogato ai vari poteri.

L’impostazione cosmopolita del movimento illuminista giunse anche in Italia, dopo che dall’Inghilterra si era diffuso in Francia.

Le nuove idee trovarono terreno fertile in Toscana, Lombardia, e a Napoli.

Se l’illuminismo fu, alla fine, una forma di dispotismo illuminato e di riformismo dispotico – secondo il concetto moderno di democrazia e libertà di pensiero – ebbe almeno il merito di insinuare il dubbio e fare discutere.

Di certo, discutere di politica, cultura e scienza era appannaggio del ceto borghese, mentre i super-nobili erano intenti ad arroccarsi, temendo che i borghesi potessero compromettere il loro potere.

L'Accademia dei Pugni nella stanza della stufa bianca (A. Perego)

L’Accademia dei Pugni nella stanza della stufa bianca (A. Perego)

Fuori dai salotti letterari che andavano diffondendosi ovunque, i popolani non avevano, di solito, il tempo di “illuminarsi”, occupati com’erano da sempre ad arrabattarsi per riuscire almeno a mettere il cibo sulla tavola, preferibilmente tutti i santi giorni dell’anno.

Però chi poteva si confrontava, anche animatamente, scambiandosi idee e concetti.

All’Accademia dei Pugni, ad esempio, associazione culturale sorta a Milano nel 1716 in casa Verri in quel di contrada Montenapoleone, le scazzottate erano solo virtuali. Negli accesi dibattiti e confronti su politica, scienza, società e quant’altro, si cercava di mantenere viva la luce della ragione e del pensiero libero.

Una luce che prorompe anche nella pittura con la riproduzione reale dei paesaggi e soprattutto nel vedutismo, o in aree luminescenti che emergono dal buio circostante nei ritratti di personaggi della borghesia e nelle scene di vita quotidiana.

Quando lo Stretto di Bering era un ponte di terra

Beringia

Se i primi ominidi della specie Homo habilis apparvero circa 2 milioni di anni fa nel continente africano, esattamente nell’attuale regione dell’Etiopia e della Somalia, 10 o 20 millenni potrebbero sembrare poca cosa.

10.000 o 20.000 anni, invece, sono delle belle cifre che mettono in gioco le sorti e i destini di svariati protagonisti, paesaggi e ambienti, a seconda della latitudine e della zona geografica di appartenenza.

È il caso della Beringia, ad esempio, un’ampia distesa di terra  che all’apice dell’ultimo periodo glaciale  nel continente americano (circa 40.000 anni fa) si estendeva in larghezza per quasi 2.000  km, unendo Alaska e Siberia, oggi separate dallo Stretto di Bering.

Si stima che questo immenso ponte di terra, detto anche pianura di Bering, sia stato attraversato  tra 40.000 e 20.000 anni fa da svariati flussi migratori di popolazioni provenienti dalla Siberia che si insediarono nell’attuale Alaska.  

Da lì non uscirono fino alla fine del periodo glaciale, intorno a 10.000 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi e a liberare enormi quantità di acqua, sommergendo le terre prima disponibili. Gli Amerindi si divisero allora in due gruppi. Una parte si disperse per tutto il Nord America, mentre l’altro gruppo discese nell’America centrale e meridionale.

Ultimo periodo glacialeUltima era glaciale

Questo è ciò che racconta il DNA degli attuali discendenti dei primi nativi americani, comparato con quello dei pochi resti dei loro antenati, pervenuti dalla notte dei tempi.

La ricerca scarterebbe l’ipotesi che alcuni Solutreani, popolazione primitiva che popolava Francia e Spagna tra 30.000 e 10.000 anni fa, avessero costeggiato a bordo di fragili imbarcazioni la calotta di ghiaccio che ricopriva l’Oceano Atlantico settentrionale, unendo l’Europa al continente americano.

Di fasi glaciali, il pianeta terra ne ha vissute diverse, con temperature che non furono mai costantemente gelide dopo il picco massimo di freddo. Si alternavano, infatti, lassi di tempo più o meno lunghi, nell’ordine di alcuni secoli, con un clima più mite.

La curiosità è che ad ogni periodo glaciale precede un innalzamento delle temperature, con estati più calde che fanno evaporare gli oceani, provocando piogge abbondanti che ad alta quota si trasformano in neve, a beneficio dei ghiacciai esistenti.

Tra le molteplici cause di questi fenomeni ciclici vi sarebbero anche le variazioni dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse terrestre, che modificano l’irradiazione della luce solare sulla terra. Una vecchia tradizione terrestre, con cui l’essere umano ha sempre dovuto fare, e deve fare soprattutto oggi, i conti per la sua sopravvivenza.

L’Italia nell’ultimo periodo glaciale

Se il ghiaccio avanza, il mare si ritira e lascia libere le terre prima sommerse. Se il ghiaccio si ritira, il mare si alza, sommergendo le terre prima disponibili. L’Italia stessa, nell’ultimo periodo glaciale, era molto più larga e tozza, con ampie strisce di terra al posto degli attuali litorali, isole inglobate tra loro o alla terraferma. A differenza di altre zone più a nord, il clima non era così proibitivo, permettendo l’esistenza di una ricca fauna e foreste lussureggianti che ricoprivano gran parte del territorio, invogliando le popolazioni di passaggio a rimanervi, almeno fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale. Fino a 12.000 – 11.000 anni fa, epoca che corrisponde a quel periodo, la stragrande maggioranza degli italiani di allora aveva, infatti, la carnagione più scura, ereditata da migrazioni di popoli  provenienti dall’est Europa. Una parte di essi si spostò di nuovo verso il centro e il nord  Europa quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi. Altri flussi migratori provenienti dal Medio Oriente entrarono dall’Italia meridionale, lasciandoci in eredità la loro carnagione più chiara.

Ex Riseria Gariboldi e dintorni – Milano

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Ex riseria Gariboldi, Milano

Inizia nel 1889 la storia della riseria Gariboldi, oggi stabilimento dismesso e video sorvegliato, a due passi dal Naviglio Pavese.

In quell’anno, l’omonima famiglia si insediò nella zona e diede il via ad un’ estesa coltivazione del riso, diventando nella seconda metà degli anni ’30 una delle maggiori aziende produttrici di riso parboiled. Questo tipo di riso, largamente utilizzato, ha la proprietà di tenere molto bene la cottura grazie allo speciale trattamento a vapore dei chicchi.

La fervida attività della Gariboldi fu interrotta nei primi anni del 2000. L’azienda fu poi ceduta ad un grande gruppo industriale del settore.

La produzione fu così trasferita in Lomellina per disporre più facilmente della materia prima, ma anche per buona pace del vicinato a causa della rumorosità del grande impianto.

Infatti,  se un tempo lo stabilimento era delimitato in gran parte solo da campi e risaie, nel corso degli anni l’urbanizzazione lo ha pressoché circondato.

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Abitato presso ex riseria Gariboldi – Milano

Ancora in città, ma già in sentore di campagna e sulla strada che porta a Pavia, restano accanto ai grandi silos e all’intreccio delle tubature con le lamiere, alcune case decorosamente sopravvissute.

Come un antico borgo, sembrano fargli compagnia.

Perfino il cielo insolitamente azzurro limpido, complice il vento,  e le fioriture primaverili sembrano confortarlo nel suo silenzio spettrale in attesa di un incerto destino che lo porterà verso lo smantellamento definitivo o al recupero intelligente.

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