Insalata di farro e cavolo romanesco

Insalata di farro e cavolo romanesco

La famiglia dei cavoli, di solito, non incontra molta simpatia tra i consumatori. Probabilmente per via del relativo odore di cottura persistente e il più delle volte fastidioso.

Tuttavia, se questi ortaggi si consumano a crudo, possono risultare più gradevoli, a patto che si riesca a digerirli senza difficoltà.

Riuscire a includere brassicacee o crucifere – la famiglia dei cavoli – nella propria alimentazione non può che far bene, per l’apporto di vitamine C, B6, E, K, A, degli antitumorali glucosinolati, di fosforo, potassio e magnesio. Inoltre, come altre verdure a foglia verde, contengono leuteina e zeaxantina, con grande beneficio per la retina e la vista in generale.

Broccolo o cavolo romanesco

Consumate crude, però, sembrano inibire l’assorbimento dello iodio, per cui dovrebbe essere evitato un consumo eccesivo dell’ortaggio crudo per chi soffre di ipotiroidismo e optare per la cottura.

In ogni caso, 100 gr di cavolo verde crudo, compreso quello romanesco, contengono quasi 40.000 microgrammi tra leuteina e zeaxantina. Una quantità notevole, considerando che il fabbisogno giornaliero si aggira intorno a 6.000 microgrammi.

Ingredienti per due persone

100 gr di cavolo romanesco (solo le cimette)

100 gr di farro

capperi in aceto q.b.

olive verdi q.b.

olio di oliva – eventuale aceto e/o succo di limone

sale – pepe nero – eventuale aglio

Preparazione

Lessare al dente il farro in acqua salata e scolare bene.

Lavare 100 gr di cavolo romanesco, utilizzando solo le cimette e rimuovendo le parti più dure

Passare al mixer, insieme ai capperi, alle olive verdi e all’olio di oliva

Impiattare il trito di cavolo romanesco insieme al farro, aggiungendo eventualmente dell’aglio crudo tagliato a lamelle molto sottili (il sapore si disperde insieme agli altri ingredienti, risultando molto meno intenso)

Condire secondo i gusti, con olio di oliva, aceto o succo di limone.

Spolverizzare con poco pepe nero.

La ricetta si presta molto bene come piatto unico freddo da consumare nella stagione calda.

Eventualmente, sostituendo l’ortaggio con il comune cavolo verde, reperibile ormai in tutte le stagioni.

Periferia in aprile – di Antonia Pozzi

Intorno aiole
dove ragazzo t’affannavi al calcio:
ed or fra cocci
s’apron fiori terrosi al secco fiato
dei muri a primavera.
Ma nella voce e nello sguardo
hai acqua,
tu profonda frescura, radicata
oltre le zolle e le stagioni, in quella
che ancor resta alle cime
umida neve:
così correndo in ogni vena
e dici
ancora quella strada remotissima
ed il vento
leggero sopra enormi
baratri azzurri.

Quando lo Stretto di Bering era un ponte di terra

Beringia

Se i primi ominidi della specie Homo habilis apparvero circa 2 milioni di anni fa nel continente africano, esattamente nell’attuale regione dell’Etiopia e della Somalia, 10 o 20 millenni potrebbero sembrare poca cosa.

10.000 o 20.000 anni, invece, sono delle belle cifre che mettono in gioco le sorti e i destini di svariati protagonisti, paesaggi e ambienti, a seconda della latitudine e della zona geografica di appartenenza.

È il caso della Beringia, ad esempio, un’ampia distesa di terra  che all’apice dell’ultimo periodo glaciale  nel continente americano (circa 40.000 anni fa) si estendeva in larghezza per quasi 2.000  km, unendo Alaska e Siberia, oggi separate dallo Stretto di Bering.

Si stima che questo immenso ponte di terra, detto anche pianura di Bering, sia stato attraversato  tra 40.000 e 20.000 anni fa da svariati flussi migratori di popolazioni provenienti dalla Siberia che si insediarono nell’attuale Alaska.  

Da lì non uscirono fino alla fine del periodo glaciale, intorno a 10.000 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi e a liberare enormi quantità di acqua, sommergendo le terre prima disponibili. Gli Amerindi si divisero allora in due gruppi. Una parte si disperse per tutto il Nord America, mentre l’altro gruppo discese nell’America centrale e meridionale.

Ultimo periodo glacialeUltima era glaciale

Questo è ciò che racconta il DNA degli attuali discendenti dei primi nativi americani, comparato con quello dei pochi resti dei loro antenati, pervenuti dalla notte dei tempi.

La ricerca scarterebbe l’ipotesi che alcuni Solutreani, popolazione primitiva che popolava Francia e Spagna tra 30.000 e 10.000 anni fa, avessero costeggiato a bordo di fragili imbarcazioni la calotta di ghiaccio che ricopriva l’Oceano Atlantico settentrionale, unendo l’Europa al continente americano.

Di fasi glaciali, il pianeta terra ne ha vissute diverse, con temperature che non furono mai costantemente gelide dopo il picco massimo di freddo. Si alternavano, infatti, lassi di tempo più o meno lunghi, nell’ordine di alcuni secoli, con un clima più mite.

La curiosità è che ad ogni periodo glaciale precede un innalzamento delle temperature, con estati più calde che fanno evaporare gli oceani, provocando piogge abbondanti che ad alta quota si trasformano in neve, a beneficio dei ghiacciai esistenti.

Tra le molteplici cause di questi fenomeni ciclici vi sarebbero anche le variazioni dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse terrestre, che modificano l’irradiazione della luce solare sulla terra. Una vecchia tradizione terrestre, con cui l’essere umano ha sempre dovuto fare, e deve fare soprattutto oggi, i conti per la sua sopravvivenza.

L’Italia nell’ultimo periodo glaciale

Se il ghiaccio avanza, il mare si ritira e lascia libere le terre prima sommerse. Se il ghiaccio si ritira, il mare si alza, sommergendo le terre prima disponibili. L’Italia stessa, nell’ultimo periodo glaciale, era molto più larga e tozza, con ampie strisce di terra al posto degli attuali litorali, isole inglobate tra loro o alla terraferma. A differenza di altre zone più a nord, il clima non era così proibitivo, permettendo l’esistenza di una ricca fauna e foreste lussureggianti che ricoprivano gran parte del territorio, invogliando le popolazioni di passaggio a rimanervi, almeno fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale. Fino a 12.000 – 11.000 anni fa, epoca che corrisponde a quel periodo, la stragrande maggioranza degli italiani di allora aveva, infatti, la carnagione più scura, ereditata da migrazioni di popoli  provenienti dall’est Europa. Una parte di essi si spostò di nuovo verso il centro e il nord  Europa quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi. Altri flussi migratori provenienti dal Medio Oriente entrarono dall’Italia meridionale, lasciandoci in eredità la loro carnagione più chiara.

Cineteca: Storia e teatro al cinema – Riccardo III

Diabolico, subdolo, intrigante e malvagio. Questo è il ritratto di Riccardo III, duca di Gloucester, consegnato alla storia.

Ma a riscattare la sua memoria esiste un’associazione con oltre 3.500 iscritti che la pensano diversamente. La fama dell’ultimo regnante della Casa di York, sanguinario e senza scrupoli, sarebbe stata solo un’opera di diffamazione ben congegnata. Fu una propaganda politica sleale da parte dei Tudor per legittimarsi nel spodestarlo dal trono, esagerando apposta anche sui suoi difetti fisici.

Claudicante, un po’ gobbo, un braccio e la mano deformi, pare, fossero i tratti giusti per rendere verosimile la natura maligna della sua personalità, amplificando la realtà di un corpo affetto solo da scoliosi.

Questo è il principio che promuove l’associazione per il suo riscatto morale e, in parte, il risultato degli scavi in un parcheggio a Leicester, situata a 150 km da Londra, quando furono ritrovate le sue spoglie nel 2012.

Da ciò, l’appellativo di “Re del parcheggio” per Riccardo III, divenuto così “The King of the Parking” con relativa cerimonia solenne postuma al suo ritrovamento.

La sparizione, nel 1483, del giovane erede al trono e di suo fratello, alla morte del padre Edoardo IV, fratello di Riccardo ancora duca, fu il fatto più eclatante che gettò la luce nefasta sul personaggio. In quel frangente, fu sospettato di avere fatto uccidere i due giovani nipoti, rivali al trono, per impossessarsi della corona dopo soli tre mesi.

Di certo, la fine dell’ultimo regnante della Casa di York, fu davvero una brutta fine, che lo vide cadere sconfitto a Bosworth Field, dove forse pronunciò la famosa frase “Il mio regno per un cavallo” dopo essere stato disarcionato.

Il suo corpo non fu mai trovato e la leggenda raccontava che fosse stato gettato in un fiume.

Gli storici, gli archeologi e gli studiosi che hanno esaminato lo scheletro ritrovato a un paio di metri sotto il parcheggio, in quello che era stato un convento di frati, hanno ricostruito un esito finale davvero cruento della sua breve carriera da sovrano durata solo due anni. Inoltre, il DNA di un suo discendente di 17a generazione ha confermato la veridicità del ritrovamento.

Passando dalla storia al teatro, ci pensò Shakespeare un secolo dopo la morte di Riccardo III, a fomentare e tramandare la sua pessima reputazione nel famoso dramma a lui dedicato.

Di shakespeariana memoria sono poi seguite moltissime versioni teatrali sul medesimo soggetto.

Ma arrivando al cinema, non dovrebbe mancare nella videoteca privata degli appassionati di film storici, la versione cult del 1955 con l’insuperabile Laurence Olivier nei panni del perfido Riccardo.

Doppiato in italiano da Gino Cervi, il film offre ben 160 minuti di full immersion nella classica versione ultra-dark del personaggio.