I ritmi della terra, del sole e dell’uomo

Parafrasando Dante all’inizio del 24° canto dell’Inferno l’imminente arrivo di Febbraio viene così descritto  «In quel periodo dell’anno appena iniziato, quando il sole sotto il segno dell’Acquario riscalda un poco i raggi e le notti iniziano ad accorciarsi, la brina in terra si disegna come fosse neve, ma con tratti di breve durata».

Le giornate già si sono allungate a partire dal 22 dicembre, con il solstizio d’inverno,  e si attende  il mese di “Febbraio, Febbraietto, corto, corto, maledetto”, per citare un detto popolare, che mette in guardia da improvvise temperature rigide e dalle gelate.

Anche gli antichi temevano il gelo. Tra il 22 e 26 gennaio nell’antica Roma avevano luogo le  Feriae sementivae, festa dedicata alla terra durante la quale si  invocavano le divinità affinché le sementi fossero protette dalle gelate e potessero germogliare.

Gennaio è il mese dedicato al dio Giano provvisto di due volti, uno che guarda al passato e l’altro verso il futuro, simbolo emblematico degli inizi, siano essi rappresentati da attraversamenti e passaggi mediante porte, ponti o sorgenti.

Giano, dio degli inizi

 Il dio e il mese a lui attribuito fu associato all’inizio dell’anno, come si intende ora, a partire dal 153 a.C. quando i consoli e i magistrati romani entravano in carica per i dodici mesi successivi.

Con i falò di Sant’Antonio, accesi intorno al 17 Gennaio, si propiziano tuttora i raccolti, che nelle aree più fredde d’Italia avverranno dopo la semina in Gennaio di verze, cavoli, broccoli, rucola, sedano e altre verdure.

Il legame della natura e i suoi ritmi con l’agricoltura e la realtà contadina è quindi strettamente connesso dalla notte dei tempi in ogni parte del mondo. Da quando l’uomo, non più solo nomade e raccoglitore, comprese che diventare stanziale portava con sé alcuni vantaggi. In primis, l’opportunità di dedicarsi alla cura della terra e degli animali in modo più efficiente e produttivo, agevolando scambi, baratti e ricchezza.

Ne consegue che l’agricoltura è sempre stata una delle principali risorse che hanno portato al benessere, fornendo un’insostituibile fonte di sopravvivenza per l’uomo.

Intorno ai prodotti della natura, siano essi coltivati o cresciuti spontaneamente, si sono sviluppati nei millenni e nei secoli svariati riti e tradizioni popolari, utilizzi curativi, decori artistici, produzioni tessili e artigianali. Non sono mancate nemmeno sperimentazioni pionieristiche che nulla hanno a che fare con organismi geneticamente modificati. Un esempio lo fornirono i Gonzaga, Signori di Mantova, i quali si dedicavano alla coltivazione di aranci in Val Padana.

Proiettati nei tempi moderni, densi di inquietanti “proposte alimentari” sintetiche ed esigenze più o meno autentiche rivolte al rispetto dell’ambiente, va ricordato che la fotosintesi, processo vitale per la stragrande maggioranza di ogni tipo di pianta, permette l’assorbimento dell’anidride carbonica e il rilascio di ossigeno.

Quindi, non solo olmo, tiglio, edera, acero, betulla, ginkgo biloba, alloro, corbezzolo, ma anche ciliegio, melo, pesco, prugno e albicocco contribuiscono a pulire l’aria.

Nel frattempo, gettando lo sguardo ai mesi a venire e attingendo alla tradizione popolare, si sappia che è buona cosa tenere in tasca qualche noce per far sì che il vento non disperda il grano e gli altri cereali durante la trebbiatura, vale a dire tra giugno e luglio.


Il tetto del Colosseo. Un’idea da copiare?

Difficile immaginarsela oggi, date le condizioni attuali , la copertura escogitata per riparare il pubblico del Colosseo dal caldo o dalla pioggia e dal vento.

Tecnicamente detto “velarium”, che in latino deriva da “velo / tessuto”, il sistema di schermatura si ispirava alle navi.

A una struttura circolare costituita da 240 pali in legno lunghi 23 mt, inseriti in appositi fori e sostegni nella parte superiore del Colosseo era collegata una rete di funi, tenuta insieme nella parte finale da una corda ad anello. All’occorrenza l’insieme dei teli in lino veniva così srotolato o riavvolto, mediante l’azionamento delle funi.

Altre funi legate sulla sommità dei pali e fissate alle grandi pietre a terra intorno al Colosseo, tuttora visibili, servivano per controbilanciare la tensione e il peso dell’enorme rete.

Ma questo marchingegno non era l’unico ad entusiasmare il pubblico, l’imperatore e il suo seguito, fine ultimo dell’enorme investimento economico che girava intorno al Colosseo.

Per rinfrescare nelle torride giornate romane, veniva dispersa una nebulizzazione regolare che sfruttava l’aria per distribuire l’acqua mediante pressione.

In un grande serbatoio colmo d’acqua veniva inserito un lungo tubo, che spingeva l’acqua in due serbatoi laterali. Al loro interno, due pistoni si muovevano alternativamente e regolarmente grazie all’oscillazione di un braccio che li collegava nella loro parte superiore.

Veniva così prodotta una pressione regolare e costante, che spingeva l’acqua nel lungo tubo e la erogava dall’alto in modo continuativo.

Soluzioni a costo zero, si potrebbe concludere, che allora consentivano agli astanti di godersi in modo più confortevole spettacoli che oggi parrebbero, come minimo e in molti casi, di cattivo gusto.

Ma tant’è, questo ci racconta la storia e ciò che è stato; genio e brutalità, bellezza e crudeltà.

Del resto, tra mille o duemila anni chissà cosa si dirà di oggi…

Dalle stelle alle stalle

Nel silenzio della calura pomeridiana estiva la musica e le parole della famosa “Come vorrei che tu fossi qui” ,  aleggiavano, sparate a palla sul confine agro-cementizio della metropoli.

Pochi metri più in là, oltre il lato urbano, numerosi ettari di terra sopravvivono,  che  per sfatare il mito della metropoli  fredda, crudele e frenetica, vengono ancora lavorati  e coltivati con passione e abnegazione.

Tanto  che l’odore dello stallatico autentico è stato ben accettato dalle genti urbane al di là dal confine agricolo.

Tra alberi secolari, o quasi, e correnti naturali, l’antica cascina che, oltre ad occuparsi  dell’attività agricola,  alleva mucche, vende al dettaglio latte appena munto e yogurt, a detta di molti, strepitoso.

Quando il brano, udibile da tutti lì intorno, era giunto al termine e seguito dagli applausi registrati, si è levato alto  un muggito che pareva proprio di apprezzamento.

Era un “muhhhh” proprio convinto, quasi a dire, – Che, ce lo fai sentire ancora?

Resta ignota l’origine della musica, che a detta dei proprietari dei quadrupedi non proveniva da loro.

Chissà, forse il prossimo yogurt sarà ancora più buono.

Cogito ergo sum?

L’ulivo pensante – Ginosa

Scherzo della natura o portatore di un messaggio sublimale, l’ulivo pensante di Ginosa, cittadina della provincia di Taranto, è un esemplare davvero curioso.

Resta ignota ai più l’esatta ubicazione del plurisecolare pensatore.

Meglio lasciarlo là dov’è a meditare tranquillo, su chi o cosa, lo sa solo lui.

Quando lo Stretto di Bering era un ponte di terra

Beringia

Se i primi ominidi della specie Homo habilis apparvero circa 2 milioni di anni fa nel continente africano, esattamente nell’attuale regione dell’Etiopia e della Somalia, 10 o 20 millenni potrebbero sembrare poca cosa.

10.000 o 20.000 anni, invece, sono delle belle cifre che mettono in gioco le sorti e i destini di svariati protagonisti, paesaggi e ambienti, a seconda della latitudine e della zona geografica di appartenenza.

È il caso della Beringia, ad esempio, un’ampia distesa di terra  che all’apice dell’ultimo periodo glaciale  nel continente americano (circa 40.000 anni fa) si estendeva in larghezza per quasi 2.000  km, unendo Alaska e Siberia, oggi separate dallo Stretto di Bering.

Si stima che questo immenso ponte di terra, detto anche pianura di Bering, sia stato attraversato  tra 40.000 e 20.000 anni fa da svariati flussi migratori di popolazioni provenienti dalla Siberia che si insediarono nell’attuale Alaska.  

Da lì non uscirono fino alla fine del periodo glaciale, intorno a 10.000 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi e a liberare enormi quantità di acqua, sommergendo le terre prima disponibili. Gli Amerindi si divisero allora in due gruppi. Una parte si disperse per tutto il Nord America, mentre l’altro gruppo discese nell’America centrale e meridionale.

Ultimo periodo glacialeUltima era glaciale

Questo è ciò che racconta il DNA degli attuali discendenti dei primi nativi americani, comparato con quello dei pochi resti dei loro antenati, pervenuti dalla notte dei tempi.

La ricerca scarterebbe l’ipotesi che alcuni Solutreani, popolazione primitiva che popolava Francia e Spagna tra 30.000 e 10.000 anni fa, avessero costeggiato a bordo di fragili imbarcazioni la calotta di ghiaccio che ricopriva l’Oceano Atlantico settentrionale, unendo l’Europa al continente americano.

Di fasi glaciali, il pianeta terra ne ha vissute diverse, con temperature che non furono mai costantemente gelide dopo il picco massimo di freddo. Si alternavano, infatti, lassi di tempo più o meno lunghi, nell’ordine di alcuni secoli, con un clima più mite.

La curiosità è che ad ogni periodo glaciale precede un innalzamento delle temperature, con estati più calde che fanno evaporare gli oceani, provocando piogge abbondanti che ad alta quota si trasformano in neve, a beneficio dei ghiacciai esistenti.

Tra le molteplici cause di questi fenomeni ciclici vi sarebbero anche le variazioni dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse terrestre, che modificano l’irradiazione della luce solare sulla terra. Una vecchia tradizione terrestre, con cui l’essere umano ha sempre dovuto fare, e deve fare soprattutto oggi, i conti per la sua sopravvivenza.

L’Italia nell’ultimo periodo glaciale

Se il ghiaccio avanza, il mare si ritira e lascia libere le terre prima sommerse. Se il ghiaccio si ritira, il mare si alza, sommergendo le terre prima disponibili. L’Italia stessa, nell’ultimo periodo glaciale, era molto più larga e tozza, con ampie strisce di terra al posto degli attuali litorali, isole inglobate tra loro o alla terraferma. A differenza di altre zone più a nord, il clima non era così proibitivo, permettendo l’esistenza di una ricca fauna e foreste lussureggianti che ricoprivano gran parte del territorio, invogliando le popolazioni di passaggio a rimanervi, almeno fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale. Fino a 12.000 – 11.000 anni fa, epoca che corrisponde a quel periodo, la stragrande maggioranza degli italiani di allora aveva, infatti, la carnagione più scura, ereditata da migrazioni di popoli  provenienti dall’est Europa. Una parte di essi si spostò di nuovo verso il centro e il nord  Europa quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi. Altri flussi migratori provenienti dal Medio Oriente entrarono dall’Italia meridionale, lasciandoci in eredità la loro carnagione più chiara.

Metrodora e l’aromaterapia

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“Prendi solo quello che ti serve” non è solo una massima di vita, ma anche il consiglio di Metrodora per dosare in giusta quantità gli ingredienti di un impacco rigenerante da lei creato.

Metrodora, chi era?

Se la sua collocazione storica è incerta, pare fosse nata fra il 200 e il 400 d.C., quella geografica è sicura; l’Egitto, da tempo inglobato nelle province dell’impero romano.

All’incirca di quel periodo sono pervenuti ritratti molto realistici di personaggi ben curati, i cui lineamenti possiamo trovare ancora oggi nei paesi mediterranei (incluso il nostro), a prova del fatto che la cura della persona è sempre stata una pratica diffusa.

Ritratti del Fayum, Egitto (100. a.C- 300 d.C.)

Tra una scorreria e l’altra, la fame, le malattie e la miseria, vi erano momenti di relativa pace e prosperità che inducevano a occuparsi anche dell’aspetto e del benessere fisico, oltre alla necessità principale di sopravvivere.

Considerando gli ingredienti dei preparati di Metrodora, sembra che molti fossero di facile reperibilità; euphorbia, pepe, alloro, semi di lino, latte, aceto, farina di frumento, fieno greco, argilla, saponaria, ciclamino, per citarne alcuni. Ne consegue che numerosi dei suoi preparati non fossero solo appannaggio dei benestanti. Bastava fare un giro nell’orto, tra le piante che crescevano spontanee nei dintorni e sacrificare piccole scorte di alimenti nella dispensa di casa.

Ma Metrodora non era solo un’esperta in cosmetica. Era soprattutto una medichessa, donna medico, medica o come dir si voglia. La prima, nella storia, a scrivere un trattato medico, meticolosamente redatto in ordine alfabetico e dal titolo ” Delle Malattie delle Donne”.

Particolarmente ferrata in tematiche femminili, si occupava anche di disturbi di altro genere, tra cui quelli febbrili e malaria, gastrici, reumatici e da trauma, attingendo dagli insegnamenti di Galeno e Andromaco.

Ma nelle sue ricette non potevano mancare anche quelle che contemplavano la profumazione degli ambienti. L’utilizzo della fumigazione e degli incensi, infatti, non era solo una pratica sacrale per propiziarsi la benevolenza divina, ma serviva anche per purificare l’ambiente e il vestiario.

E con gli agenti patogeni gli antichi dovevano conviverci abitualmente, pur non sapendone quasi nulla, ma almeno non disponevano né di mezzi né di capacità per maneggiarli, spezzettarli, ricomporli e disperderli volontariamente o per negligenza.

Così, Metrodora consigliava la fumigazione di resina di benzoino (Styrax officinalis) dalle proprietà antibatteriche, di aquilaria (l’attuale agarwood) dal profumo intenso, antinfiammatorio, antiasmatico e rilassante, di sandalo, antisettico e decongestionante, di incenso, dalle proprietà antibatteriche.

Inoltre, suggeriva di bruciare chiodi di garofano, dalle proprietà antisettiche ed antibatteriche, radice di iris, dalle proprietà antinfiammatorie (tuttora utilizzata in età infantile da masticare all’inizio della dentizione per alleviare il dolore), lavanda, dall’effetto antibatterico, legno di rosa, dalle virtù antinfettive e legno di gelsomino, dalle proprietà antispasmodiche e analgesiche.

Si cercava, insomma, di sopperire alla mancata conoscenza di allora con quanto la natura metteva a disposizione, sempre nella giusta misura e in base all’esperienza acquisita.

Vivere mini, ma al massimo

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Container dismessi, ex-vagoni, ex-autobus, case in legno da montare, case su ruote più o meno piccole. Queste, sono le soluzioni abitative che stanno prendendo piede in giro per il mondo.

Il tiny (minuscolo) life-style è molto diffuso soprattutto nei paesi di mentalità anglo-sassone: nord-America, Nuova Zelanda, paesi del nord Europa, ma molto più raro nei paesi mediterranei, come il nostro, se non del tutto assente.

Probabilmente, è soprattutto la mancanza di normative che contemplano questo tipo di residenza a fare da deterrente. Da noi, tutto ciò che serve come residenza abituale, roulotte compresa, deve rispettare una lunga serie di regole e divieti riguardanti gli allacciamenti, la rete fognaria, le tasse da pagare ecc. Evidentemente, il rischio più o meno diffuso di abusivismo edilizio ha portato a un’infinità di costi e cavilli burocratici.

Di conseguenza, si potrebbe prendere in considerazione una piccola abitazione recuperata da un container dismesso, ad esempio, solo in alcuni rari casi.

Il costo in sé sarebbe il fattore meno rilevante, considerando che lo si potrebbe acquistare sul mercato italiano a un prezzo tra 600/700 euro e circa 3.000 euro, a seconda della grandezza, dei viaggi che ha compiuto, dell’anno di costruzione e delle condizioni.

Servirebbe poi una certa capacità di sacrificio, dinamismo e manualità per poter effettuare, almeno in parte e da soli, le migliorie e i vari adattamenti per renderlo vivibile: realizzare le finestre, tagliare la lamiera e montare i telai, provvedere all’isolamento interno ed ed esterno, razionalizzare gli spazi, utilizzare fin dove è possibile materiale di recupero e andarselo a cercare.

Insomma, tutto questo comporta tempo, spirito di abnegazione, molta motivazione e un po’ di soldi.

Ma, oltre alla parte burocratica e di progettazione, la collocazione di un container per viverci pone naturalmente la domanda “Sì, ma dove?”

Non tutti hanno lo fortuna di disporre di un terreno edificabile residenziale di proprietà, perché alla luce dei fatti, questa è la premessa principale.

Ma se il comune concede i permessi, l’avventura ha inizio.

Pannelli solari sul tetto, stufa a legno e cucina economica (sempre che non ci sia il divieto di bruciare la legna, causa inquinamento…), tavoli e tavolini a scomparsa, contenitori che diventano divani e /o letti e viceversa, soppalchi ecc.

Se ci si può allacciare alla rete idrica, fognaria, elettrica e del gas, il container diventerà a tutti gli effetti più che vivibile.

Altrimenti, resta la scelta più ruspante off-grid (fuori rete): gas in bombole, serbatoi per l’acqua, il wc compostante (compost toilet), se è permesso…, illuminazione con lanterne e candele o torce a ricarica solare, una vecchia stufetta a legna per scaldarsi.

Questo, sarebbe in realtà lo spirito di chi, circa vent’anni fa, ha dato il via al movimento tiny house, quando l’eco-sostenibilità era molto meno d’attualità e più autentica.

Vero è che sull’onda di questo nuovo stile di vita che si ispira alla sobrietà del passato, possono risultare soluzioni abitative davvero sorprendenti e innovative, soprattutto se chi le attua ha la fortuna di vivere in contesti naturali straordinari.

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Il sole, questo fuggitivo

“Non ci sono più le mezze stagioni” non è più solo un luogo comune, uno stralcio di conversazione da ascensore o in coda da qualche parte. È una consuetudine che ormai si ripresenta puntuale da un po’ di anni.

Giorni e giorni continui di pioggia e nuvolaglia incombente mettono a dura prova anche l’umore dei più indomiti e ottimisti, quanto meno alle nostre latitudini.

Solo un fugace sprazzo di sole, ogni qualche settimana, fa intravedere tra i palazzi,  le montagne in lontananza spropositatamente innevate per la stagione. Meglio approfittare dell’attimo fuggente, quindi, prima che arrivi un inverno arido e secco, che detta così suona già un’assurda contraddizione.

Ma allora, questo riscaldamento globale? Sarà proprio lui che, paradossalmente, fa aumentare l’umidità e le piogge? Oppure non c’entra per niente?

E tutta quell’acqua? Se venisse immagazzinata in enormi cisterne o trasportata in acquedotti di acqua piovana verso le terre più aride  e calde, paleremmo ancora di siccità, dopo qualche mese o a migliaia di chilometri? Già, ma si potrebbe obiettare che quell’acqua andrebbe depurata, anche solo per irrigare i campi.

Cade ovunque, e in certi paraggi si porta appresso una bella quantità di inquinanti. Non è più quella che gli antichi Romani valorizzavano, immagazzinavano e sfruttavano.

Domande che cadono a pioggia, appunto, e che fanno solo rispondere “Si adatti chi può”.

 

Tra una nebulosa e l’altra…

Nebulosa

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