Dante settecento anni dopo

C’erano una volta i guelfi e i ghibellini, i primi dalla parte del papato, gli altri dalla parte dell’imperatore.

Ma poi i guelfi si divisero in bianchi e neri, i primi vedevano sempre meno di buon occhio l’ingerenza del papato nella vita politica, però non erano proprio come i ghibellini, i neri invece tolleravano per interesse l’incondizionato controllo papale nella politica e nell’economia.

Questo era lo scenario nel quale Dante Alighieri nacque, visse, peregrinò e morì da esiliato.

Castello di Poppi, Casentino

E proprio l’esilio fu la molla che fece scattare la stesura della Comedia, poi ribattezzata Divina Commedia da Boccaccio.

Quel titolo, un po’ salvava  l’opera e il suo autore da quell’alone di eresia, più politica che religiosa a dire il vero, ma che non evitò il rogo delle sue precedenti opere, una volta che i guelfi neri si ripresero Firenze.

E al rogo ci sarebbe finito anche lui se fosse rientrato a Firenze, tornando da Roma dove Papa Bonifacio VIII apposta lo aveva trattenuto più del necessario.

All’inizio si erano inventati un’ammenda da pagare, oltre a varie confische e altri capi di accusa, per “redimere” l’avversario, che si guardò bene di onorare la prima, e di sottoporsi al processo per le seconde.

Forse, oltre ad essere un guelfo bianco, Dante stava sulle scatole a molti anche per la sua appartenenza ai Fedeli d’Amore, confraternita che si riuniva in segreto, in opposizione alla corruzione della Chiesa, utilizzando un linguaggio criptico comprensibile solo agli adepti, nel quale “piangere” significava “scappare” ad esempio.

All’inizio del suo esilio Dante cercò ospitalità non troppo lontano da casa, a Pistoia, in Lunigiana e nel Casentino.  

Con gli altri guelfi bianchi esiliati si unì anche ai ghibellini, nella speranza di poter tornare presto a casa, ma fu tutto vano.

A un certo punto, Dante decise di continuare a fare l’esiliato per conto suo, buttandosi a capofitto nella sua Comedia.

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, di ritorno da Venezia dove si era recato nel ruolo di ambasciatore,  morì a 56 anni  in preda a una febbre malarica.

Dopo settecento anni ancora lo si ricorda,  e si capisce il perché.

Basta leggere o rileggere la sua Comedia, tragicamente o beffardamente sempre attuale.

Anche dopo sette secoli, o giù di lì.