Carpe diem et in pluvia expectare serenum

Il tetto del Colosseo. Un’idea da copiare?

Difficile immaginarsela oggi, date le condizioni attuali , la copertura escogitata per riparare il pubblico del Colosseo dal caldo o dalla pioggia e dal vento.

Tecnicamente detto “velarium”, che in latino deriva da “velo / tessuto”, il sistema di schermatura si ispirava alle navi.

A una struttura circolare costituita da 240 pali in legno lunghi 23 mt, inseriti in appositi fori e sostegni nella parte superiore del Colosseo era collegata una rete di funi, tenuta insieme nella parte finale da una corda ad anello. All’occorrenza l’insieme dei teli in lino veniva così srotolato o riavvolto, mediante l’azionamento delle funi.

Altre funi legate sulla sommità dei pali e fissate alle grandi pietre a terra intorno al Colosseo, tuttora visibili, servivano per controbilanciare la tensione e il peso dell’enorme rete.

Ma questo marchingegno non era l’unico ad entusiasmare il pubblico, l’imperatore e il suo seguito, fine ultimo dell’enorme investimento economico che girava intorno al Colosseo.

Per rinfrescare nelle torride giornate romane, veniva dispersa una nebulizzazione regolare che sfruttava l’aria per distribuire l’acqua mediante pressione.

In un grande serbatoio colmo d’acqua veniva inserito un lungo tubo, che spingeva l’acqua in due serbatoi laterali. Al loro interno, due pistoni si muovevano alternativamente e regolarmente grazie all’oscillazione di un braccio che li collegava nella loro parte superiore.

Veniva così prodotta una pressione regolare e costante, che spingeva l’acqua nel lungo tubo e la erogava dall’alto in modo continuativo.

Soluzioni a costo zero, si potrebbe concludere, che allora consentivano agli astanti di godersi in modo più confortevole spettacoli che oggi parrebbero, come minimo e in molti casi, di cattivo gusto.

Ma tant’è, questo ci racconta la storia e ciò che è stato; genio e brutalità, bellezza e crudeltà.

Del resto, tra mille o duemila anni chissà cosa si dirà di oggi…

Quando gli altri… – Seconda parte Mescolanze di popoli e tribù

Distribuzione degli antichi popoli italici prima di Roma

Praticamente, un puzzle, per il quale non basterebbero migliaia di tessere nel tentativo di comporlo. Questo, era il variegato panorama in cui gli antichi popoli italici pre-romani si muovevano e abitavano, si frammentavano e si fondevano, si combattevano o convivevano pacificamente, dominavano o assimilavano le reciproche peculiarità.

Ma per fare un po’ di ordine, la distribuzione geografica dei vari popoli, costituiti principalmente in tribù e clan parentali, destinati a separarsi e mescolarsi per la ricerca di nuove risorse di sostentamento, migrazioni rituali o dissidi con altri gruppi confinanti e nuovi occupanti si può così riassumere;

Ceramica falisca

Parlavano lingue indo-europee i Latino-Falisci, gli Osco-Umbri – altrimenti detti Umbro-Sabelli – i Veneti, i Siculi, i Greci, i Celti.

Ai gruppi che parlavano lingue non indo-europee appartenevano gli Etruschi, i Reti, i Piceni settentrionali, i Sicani, gli Elimi, i Sardi.

Il fatto che una determinata popolazione non parlasse una lingua indo-europea era dovuto essenzialmente da due fattori: l’origine medio-orientale o l’utilizzo di un idioma proto-indoeuropeo, vale a dire precedente a 10.000/15.000 anni a.C., prima della diffusione del medesimo ceppo linguistico indo-europeo. Ciò sarebbe stato causato da un certo isolamento geografico in cui viveva una determinata popolazione o dalla sua attitudine a mantenere intatta la lingua originaria, nonostante i contatti con altri gruppi di popolazioni parlanti lingue indo-europee.

Tra le popolazioni più antiche stanziatesi in Italia si annoverano i Falisci e gli Osco-Umbri, tra il 13° e 12° secolo a.C.

Ubicati nell’attuale provincia di Viterbo, i Falisci erano abili creatori di manufatti in ceramica.

Italia settentrionale

Fino a cinquant’anni fa la storia dell’Italia pre-romana e dei suoi popoli non era ben definita, nonostante fossero già avvenute scoperte a tal riguardo nei secoli precedenti. La civiltà di Golasecca, che popolava l’area compresa tra Lombardia occidentale, Piemonte orientale, Canton Ticino e Val Mesolcina, nell’attuale Svizzera italiana, ha contribuito a gettare luce su quell’antico passato.

Golasecca è un piccolo comune in provincia di Varese, adiacente al fiume Ticino e al Lago Maggiore, dove a partire dall’inizio del  1800 si sono iniziati a studiare alcuni ritrovamenti di una cultura, che poi ha interessato anche altre località limitrofe e non.

Fiume Ticino

Presente nell’arco del millennio intercorso tra il 14°sec. a.C. e il 4° sec. a.C. la civiltà di Golasecca fu contraddistinta da un’abbondante produzione di manufatti in metallo, che venivano commercializzati oltralpe, verso nord, nell’Europa centro-occidentale, ma anche in Etruria e nel Mediterraneo. Un commercio, questo, che fu probabilmente incentivato dalla propensione al “nomadismo” degli artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli. La non sedentarietà di questi fabbri ante-litteram è una tradizione sopravvissuta fino al secolo scorso in varie zone d’Italia.

Il territorio interessato dalla civiltà di Golasecca inglobava al suo interno montagne, valli e colline, con relativi punti di passaggio e valichi, ma anche laghi e laghetti, alta e bassa pianura Padana, ampiamente irrigata da fiumi, risorgive e canali naturali che ne assicuravano la grande ricchezza di acque.

I Golasecchiani sono ritenuti i più antichi Celti d’Italia, arrivati ben prima della discesa dei Galli, capeggiata da Belloveso, che fondò Milano agli inizi del 4° sec. a.C.  

A proposito di Celti…

Provenienti dall’Asia, i Celti – che i Romani chiamarono genericamente Galli – erano costituiti da diversi popoli indoeuropei.

A partire dal 2.000 a.C. si stanziarono nelle aree dei fiumi Reno e Danubio, per poi sparpagliarsi in numerose tribù, tra l’800 a.C. e il 600 a.C. in Francia, Svizzera Germania, Isole Britanniche, penisola iberica e nei Balcani, fino a scendere nell’Italia settentrionale e centrale.

Brenno, capo dei Galli Senoni

Fra i Celti discesi in Italia, vi furono gli Insubri – gli originari Golasecchiani – nella pianura  Padana, i Cenomani, nell’area di Brescia e Verona, i Libui e i Salluvi  presso il fiume Ticino, dove si unirono ai Levi, antico popolo ligure, i Boi e i Lingoni, che occuparono il territorio tra il Po e l’Appennino, e i Senoni, presenti tra le Marche e la Toscana.

Saranno proprio i Galli Senoni ad attaccare Roma nel 390 a.C.

Erano Celti anche i Salassi, localizzati in Piemonte, nel Canavese, e in Valle d’Aosta presso l’alto corso della Dora Baltea. Così come i Leponzi, provenienti dal territorio del massiccio del San Gottardo in Svizzera, i quali controllavano la via commerciale costituita dalla valle del Ticino, che metteva in comunicazione l’attuale Svizzera meridionale e l’Italia settentrionale. Popolavano, quindi, il nord della Lombardia e il Canton Ticino.

Gli Orobi si stanziarono tra Como e Bergamo, mentre i Taurini occuparono la parte centrale del Piemonte, adiacente ai fiumi Po e Doria Riparia.

Passo del San Gottardo

Inevitabili, furono le mescolanze celtiche con popoli più antichi presenti sui territori occupati, ad esempio quelle celto-liguri  nel nord-ovest d’Italia.

I Liguri abitavano, infatti, a partire dal 3.000 a.C., l’area tra il fiume Rodano che scorre e sfocia nel Mediterraneo, poco più oltre l’attuale confine italo-francese, e il tratto appenninico a nord-ovest della Toscana, identificato nelle Alpi Apuane. In seguito, la presenza dei Liguri rimase circoscritta al Piemonte e alla Liguria.

Le origini dei Liguri, prima della mescolanza con i Celti, sono in dubbio tra la provenienza dall’Europa occidentale o le coste iberiche, a seconda dei diversi resoconti degli antichi autori classici.

Alpi Apuane

Nell’Italia nord-orientale, le zone montuose del Trentino Alto Adige e le aree limitrofe erano popolate dai Reti, le cui origini secondo alcune fonti classiche sarebbero etrusche. I Reti si sarebbero rifugiati nell’area di loro pertinenza, sotto l’incalzante pressione da parte dei Celti, a seguito del loro predominio sugli Etruschi presenti nel nord Italia.

A sud e ad est dei territori abitati dai Reti, erano stanziati i Veneti fin dal 12° sec. a.C., espandendosi oltre l’attuale confine italiano con Austria e Slovenia. Seppur di origine indo-europea, gli antichi Veneti non appartenevano, in senso stretto, né alle genti italiche né a quelle celtiche. Sempre secondo alcune fonti classiche, i Veneti erano migrati dall’Asia, tanto che venivano definiti anche “Illiri”. Questi ultimi, infatti, dalla penisola balcanica si erano spinti fino all’Asia minore.

Un’altra mescolanza celtica ebbe luogo intorno al 6° sec. a.C. con l’antica popolazione dei Camuni, localizzata nella Val Camonica (v. Prima parte di Quando gli altri… ).

All’espansione etrusca nel nord Italia, iniziata verso la fine del 9° sec. a.C., un articolato intreccio di popoli e mescolanze, in primis quelle celto-liguri, popolava l’intera area interessata.

Continua…

Cogito ergo sum?

L’ulivo pensante – Ginosa

Scherzo della natura o portatore di un messaggio sublimale, l’ulivo pensante di Ginosa, cittadina della provincia di Taranto, è un esemplare davvero curioso.

Resta ignota ai più l’esatta ubicazione del plurisecolare pensatore.

Meglio lasciarlo là dov’è a meditare tranquillo, su chi o cosa, lo sa solo lui.

Quando gli altri costruivano piramidi e navigavano con le stelle – Prima parte

La storia degli antichi popoli italici affonda le sue radici nel Neolitico (8,000/4.000 anni a.C.) con la presenza di genti autoctone, alcune provenienti forse dall’Asia Minore e dal Mar Egeo, che parlavano lingue non indo-europee.

Il Mar Adriatico e le Alpi orientali divennero poi i corridoi naturali attraverso i quali, dal 2.000 a.C., popolazioni di lingue indo-europee originarie del centro ed est Europa giunsero in Italia.

Decisivo fu, in seguito, il contatto con culture più progredite del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente, che arrivarono via mare a partire dal 1.500 a.C.. Dapprima furono i Fenici, abitanti delle coste asiatiche del Mediterraneo, che fondarono colonie in Sicilia e Sardegna, seguiti dai Greci che colonizzarono il sud Italia, Sicilia compresa.

Elmo, 9° sec. a.C.

Dal 750 a.C. un’altra cultura importante andò delineandosi: quella etrusca, probabilmente originaria della regione turca dell’Anatolia, che visse il suo momento di massimo splendore in Italia intorno al 500 a.C.

Fenici, Greci ed Etruschi si spartirono, non senza scontri violenti e sonore sconfitte, la supremazia sulle rotte commerciali del Mar Tirreno.

Questo, in sintesi, è l’inizio del lungo percorso che intrapresero gli antichi popoli italici prima dell’unificazione sotto il dominio di Roma, conclusasi nel 1° sec. a.C.

Popoli molto diversi fra loro si trovarono così, nel corso dei secoli, ad abitare il medesimo territorio. La ricostruzione delle loro caratteristiche e vicissitudini ci è stata tramandata dagli antichi autori classici, i cui resoconti però non sono privi di risvolti propagandistici a vario titolo.

A gettare ulteriore luce sulle diverse realtà antiche pre-romane tornano utili i ritrovamenti, sempre potenzialmente in attesa di essere svelati, di vasellame, oggetti di uso comune, armi, gioielli, statue, effigi, iscrizioni, sepolture, opere architettoniche ecc.

Ma per comprendere il perché del fatto che le antiche genti italiche iniziarono il loro percorso evolutivo con circa due millenni di ritardo rispetto a quelle che abitavano il Mediterraneo orientale e il Vicino Oriente, è utile sapere alcuni antefatti.

Intorno al 6.500 a.C. le popolazioni che abitavano l’Occidente erano essenzialmente di natura nomade, in quanto raccoglitori e cacciatori alla costante ricerca di risorse per il sostentamento.

Contemporaneamente, nel Vicino Oriente si sviluppava l’agricoltura e la relativa necessità per l’uomo di divenire stanziale, con tutto ciò che ne è conseguito (sviluppo e fiorire dell’allevamento, della pastorizia, della produzione di svariati manufatti, della lavorazione dei metalli, del commercio ecc.).

Ma un altro momento decisivo che avrebbe segnato il corso degli eventi era già accaduto.

Camuni – graffiti

Circa 10.000 anni a.C. volgeva al termine l’ultima glaciazione, liberando grandi quantità di acque che resero fertili i territori precedentemente imprigionati dal ghiaccio, favorirono la crescita di boschi e foreste con relativa presenza di animali da cacciare. Uno di questi era il Nord Italia dove almeno a 8.000 anni a.C. risale la presenza in Valcamonica dei Camuni. Si trattava di una delle più antiche popolazioni indo-europee giunte nell’Italia settentrionale, dove abitò dapprima come società nomade e successivamente stanziale, a partire dal 3.000 a.C.

A glaciazione ultimata, intorno al 5.000 a.C., il continente europeo era abitato da nomadi cacciatori, pescatori e raccoglitori, provenienti dalle aree più disparate; Mare del Nord, Mar Baltico, Nord del Mar Nero, i fiumi Reno, Danubio, Vistola, gli Urali, il Volga, il Mar Caspio. Tuttavia, condividevano lo stesso ceppo linguistico – quello indo-europeo – parlato da 15.000 / 10.000 anni a.C. e diffuso fino all’India, che si frammentò nel quinto millennio a.C. con il delinearsi delle popolazioni oggi note.

Questa, è la premessa per introdurre l’Italia pre-romana, nel tentativo di districarsi in una storia tanto frammentata da sembrare un rompicapo, suddividendo i popoli italici antichi in indo-europei e non indo-europei. Così, tanto per tracciarne le origini.

Con l’unificazione romana, vennero uniformate in un unico modello culturale le numerose separazioni, mescolanze e sovrapposizioni tra genti, tribù e stirpi diverse che popolavano l’Italia nei secoli precedenti.

Ma sarà poi vero? Oppure, un po’ di verità sta nel fatto che l’essenza di un popolo è destinata a sopravvivere nonostante tutto, riaffiorando nei dialetti parlati dai posteri, nei tratti somatici e caratteriali, nei resti delle tradizioni degli antichi abitanti che occupavano determinate regioni, costituendo un panorama variegato sparso su un territorio più esteso.

Sì, perché per la penisola e le sue isole è passato un po’ di tutto, soprattutto per la collocazione strategica di crocevia tra nord e sud, est ed ovest, appetibile in ogni circostanza, tempo e stagione.

Continua…

Quando lo Stretto di Bering era un ponte di terra

Beringia

Se i primi ominidi della specie Homo habilis apparvero circa 2 milioni di anni fa nel continente africano, esattamente nell’attuale regione dell’Etiopia e della Somalia, 10 o 20 millenni potrebbero sembrare poca cosa.

10.000 o 20.000 anni, invece, sono delle belle cifre che mettono in gioco le sorti e i destini di svariati protagonisti, paesaggi e ambienti, a seconda della latitudine e della zona geografica di appartenenza.

È il caso della Beringia, ad esempio, un’ampia distesa di terra  che all’apice dell’ultimo periodo glaciale  nel continente americano (circa 40.000 anni fa) si estendeva in larghezza per quasi 2.000  km, unendo Alaska e Siberia, oggi separate dallo Stretto di Bering.

Si stima che questo immenso ponte di terra, detto anche pianura di Bering, sia stato attraversato  tra 40.000 e 20.000 anni fa da svariati flussi migratori di popolazioni provenienti dalla Siberia che si insediarono nell’attuale Alaska.  

Da lì non uscirono fino alla fine del periodo glaciale, intorno a 10.000 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi e a liberare enormi quantità di acqua, sommergendo le terre prima disponibili. Gli Amerindi si divisero allora in due gruppi. Una parte si disperse per tutto il Nord America, mentre l’altro gruppo discese nell’America centrale e meridionale.

Ultimo periodo glacialeUltima era glaciale

Questo è ciò che racconta il DNA degli attuali discendenti dei primi nativi americani, comparato con quello dei pochi resti dei loro antenati, pervenuti dalla notte dei tempi.

La ricerca scarterebbe l’ipotesi che alcuni Solutreani, popolazione primitiva che popolava Francia e Spagna tra 30.000 e 10.000 anni fa, avessero costeggiato a bordo di fragili imbarcazioni la calotta di ghiaccio che ricopriva l’Oceano Atlantico settentrionale, unendo l’Europa al continente americano.

Di fasi glaciali, il pianeta terra ne ha vissute diverse, con temperature che non furono mai costantemente gelide dopo il picco massimo di freddo. Si alternavano, infatti, lassi di tempo più o meno lunghi, nell’ordine di alcuni secoli, con un clima più mite.

La curiosità è che ad ogni periodo glaciale precede un innalzamento delle temperature, con estati più calde che fanno evaporare gli oceani, provocando piogge abbondanti che ad alta quota si trasformano in neve, a beneficio dei ghiacciai esistenti.

Tra le molteplici cause di questi fenomeni ciclici vi sarebbero anche le variazioni dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse terrestre, che modificano l’irradiazione della luce solare sulla terra. Una vecchia tradizione terrestre, con cui l’essere umano ha sempre dovuto fare, e deve fare soprattutto oggi, i conti per la sua sopravvivenza.

L’Italia nell’ultimo periodo glaciale

Se il ghiaccio avanza, il mare si ritira e lascia libere le terre prima sommerse. Se il ghiaccio si ritira, il mare si alza, sommergendo le terre prima disponibili. L’Italia stessa, nell’ultimo periodo glaciale, era molto più larga e tozza, con ampie strisce di terra al posto degli attuali litorali, isole inglobate tra loro o alla terraferma. A differenza di altre zone più a nord, il clima non era così proibitivo, permettendo l’esistenza di una ricca fauna e foreste lussureggianti che ricoprivano gran parte del territorio, invogliando le popolazioni di passaggio a rimanervi, almeno fino alla fine dell’ultimo periodo glaciale. Fino a 12.000 – 11.000 anni fa, epoca che corrisponde a quel periodo, la stragrande maggioranza degli italiani di allora aveva, infatti, la carnagione più scura, ereditata da migrazioni di popoli  provenienti dall’est Europa. Una parte di essi si spostò di nuovo verso il centro e il nord  Europa quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi. Altri flussi migratori provenienti dal Medio Oriente entrarono dall’Italia meridionale, lasciandoci in eredità la loro carnagione più chiara.

Ex Riseria Gariboldi e dintorni – Milano

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Ex riseria Gariboldi, Milano

Inizia nel 1889 la storia della riseria Gariboldi, oggi stabilimento dismesso e video sorvegliato, a due passi dal Naviglio Pavese.

In quell’anno, l’omonima famiglia si insediò nella zona e diede il via ad un’ estesa coltivazione del riso, diventando nella seconda metà degli anni ’30 una delle maggiori aziende produttrici di riso parboiled. Questo tipo di riso, largamente utilizzato, ha la proprietà di tenere molto bene la cottura grazie allo speciale trattamento a vapore dei chicchi.

La fervida attività della Gariboldi fu interrotta nei primi anni del 2000. L’azienda fu poi ceduta ad un grande gruppo industriale del settore.

La produzione fu così trasferita in Lomellina per disporre più facilmente della materia prima, ma anche per buona pace del vicinato a causa della rumorosità del grande impianto.

Infatti,  se un tempo lo stabilimento era delimitato in gran parte solo da campi e risaie, nel corso degli anni l’urbanizzazione lo ha pressoché circondato.

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Abitato presso ex riseria Gariboldi – Milano

Ancora in città, ma già in sentore di campagna e sulla strada che porta a Pavia, restano accanto ai grandi silos e all’intreccio delle tubature con le lamiere, alcune case decorosamente sopravvissute.

Come un antico borgo, sembrano fargli compagnia.

Perfino il cielo insolitamente azzurro limpido, complice il vento,  e le fioriture primaverili sembrano confortarlo nel suo silenzio spettrale in attesa di un incerto destino che lo porterà verso lo smantellamento definitivo o al recupero intelligente.

Perdersi nel labirinto della Masone

Labirinto della Masone, Fontanellato - Parma

Labirinto della Masone, Fontanellato – Parma

Percorrere un labirinto, grande o piccolo che sia, costruito con alte siepi o fitti alberi che impediscono di vedere oltre è sempre piuttosto divertente. Se poi ci si sfida a perdersi e ritrovarsi, ancora di più.

Inevitabilmente, si assapora quel po’ di mistero e timore di smarrirsi davvero, restarne prigioniero per sempre o imbattersi in un inquietante ignoto, dietro l’ennesimo vicolo cieco, nella  ricerca dell’uscita.

Ricco di significati, il labirinto, costituisce il tema di innumerevoli film e altrettanti sogni, in cui spesso si insinua il significato dell’intrigo, di una nuova coscienza o un mistero svelato.

Labirinto della Masone, alberi di bambù

Labirinto della Masone, alberi di bambù

Il labirinto affascina e inquieta gli uomini dagli albori della storia. Da quello di Cnosso, che l’architetto Dedalo costruì per rinchiudervi  il mostruoso Minotauro, e dal quale fuggì insieme a Icaro, suo figlio.  Cercarono la salvezza, volando con ali di cera che costarono a Icaro la vita, metafora della punizione per essere stato troppo ambizioso.

Passando per il Rinascimento, in cui il simbolismo si coniuga con il gusto del bello e dell’estetica, creando magnifici giardini come estensione e ampliamento della villa, provvisti di un labirinto green, luogo di tresche proibite, incontri galeotti, agguati, o più semplicemente, di tranquille passeggiate.

Forse in quanto culla del Rinascimento, solo in Italia se ne contano a decine e di ogni forma.; circolari, geometrici, squadrati ecc.  Uno di questi è il Labirinto della Masone a Fontanellato, in provincia di Parma.

Realizzato con pianta a stella, che ricorda una cittadella fortificata del 16° secolo, è delimitato e costituito da alti alberi di bambù che arrivano anche a 15 metri di altezza. Opere d’arte sparse qua e là nel labirinto, ma anche qualche cartina per non perdersi mai, completano il percorso nel dedalo verde.

Rocca di Fontanellato

Annessi al labirinto, una ricca collezione d’arte, mostre permanenti, caffetteria, ristorante e sistemazioni esclusive attendono i turisti più esigenti.

E un  po’ più lontano, il paese di Fontanellato con la rocca quattrocentesca Sanvitale e il museo (meglio informarsi prima per eventuale prenotazione obbligatoria della visita).

 

 

 

Sogno di metà inverno: Madeira

Madeira, Azzorre

Pare che alle Azzorre si dica che se il tempo non convince, è meglio aspettare mezz’ora. Forse, parafrasando Mark Twain che diceva quasi la stessa cosa, ma riferendosi ad altre latitudini, con la frase “Se non ti piace il tempo nel New England, aspetta qualche minuto.

Variabilità meteorologica a parte, che fa correre dietro al sole, inseguito dalle nuvole e dalla pioggia che cade a pochi km di distanza, l’arcipelago delle Azzorre gode di un clima temperato. Non solo, la natura è lussureggiante ed aspra, collinare e verdeggiante, ma anche dominata dalle rocce laviche. Ci si può immergere nelle acque pulitissime dell’Atlantico, che però può diventare impetuoso.

Su tutto prevale il blu profondo del mare, l’azzurro limpido del cielo, quando e dove è sereno, il verde acceso della vegetazione e i colori vivaci dei numerosissimi fiori e delle rigogliose fioriture tropicali: strelizie, hibiscus e ortensie , ginepro, erica, alberi di ananas, agrumi e banane, coltivazioni di tabacco, lino e the.

Insomma, sono isole – le Azzorre – che offrono attrattive contrastanti e, quindi, mai noiose, in un alternarsi continuo di inno alla gioia ed evocazioni lugubri.

Ma il contrasto non è solo una prerogativa della natura, su queste isole a metà strada fra Europa e America. L’anima isolana, essenzialmente chiusa e taciturna degli abitanti, contrasta con luoghi ed eventi chiassosi. Così come a S. Miguel, l’isola più grande e maggiormente popolata,  regna l’allegra confusione dei numerosi turisti, a Madeira si festeggia il Carnevale in stile brasiliano nel mese di Febbraio e il Festival Atlantico in Giugno.

Strelizia: fiore simbolo di Madeira

Il tutto, a poca distanza da itinerari e paesaggi che inducono al silenzioso rispetto di fronte a panorami che si aprono sull’Atlantico infinito e le vallate interne. Uno di questi è quello che si può scorgere percorrendo i sentieri che si snodano lungo le Levadas, i canali d’irrigazione costruiti in passato per convogliare le acque verso gli insediamenti a valle.

L’isola iniziò a suscitare interesse nel 15° secolo, quando si scoprì che le Azzorre potevano non essere solo “Monti di fuoco, vento e solitudine”, come si pensava allora.  In brevissimo tempo, l’isola fu infatti riconvertita in un territorio altamente produttivo, con  vaste piantagioni di canna da zucchero, frumento  e vigneti, tanto che solo nell’arco di venticinque anni divenne l’ìncontrastata esportatrice del famoso vino Madera. Dolce  e profumato, il vino si ottiene in gran parte da uve Malvasia e trova  largo impiego in cucina. Dalle amarene alla panna, irrorate con Madera, alle fettine di carne e alla lattuga in salsa di Madera e così via.

Con temperature invernali del tutto rispettabili che variano in questo periodo da 6° a 12°, raggiungendo anche 15° – 19°, l’isola rappresenta una meta interessante e bella da scoprire in tutte le stagioni.

Difficile pensare che, una volta giunti a Madeira e alle Azzorre in generale, ci si possa concedere una vacanza dedicata completamente all’ozio, nel variare del tempo e delle cose da fare.

 

Dalla Valle Cavanata alla foce dell’Isonzo, in bici o a piedi

Riserva Naturale Valle Cavanata

A poca distanza da Grado si apre una vasta zona protetta, in parte agricola e in parte marina, incorniciata sullo sfondo dalle montagne. Si estende tra la Riserva Naturale della Valle Cavanata e la Riserva Naturale Foce dell’Isonzo.

Giunti al Centro visite della Riserva Cavanata si possono scegliere alcuni itinerari. Uno di questi si snoda lungo la ciclabile sull’argine, di poco sopraelevata rispetto alla strada asfaltata che la costeggia. Si tratta di una strada stretta, dove il traffico è quasi del tutto assente.

Ciò consente di immergersi a 360° nell’ambiente lagunare, marino e in parte agricolo, accompagnati solo dal rumore del vento e del mare.

Quello che all’inizio si presenta come un percorso nella campagna fuori Grado svela, lungo i 9 km che portano alla torre panoramica presso la foce dell’Isonzo, tutt’altro scenario.

Si apre quasi subito sul mare, con la visuale che corre lungo tutta la costa triestina, fino alla Croazia, se la giornata è molto limpida.

Verso la fine del percorso, si incontra il piccolo villaggio di pescatori, Case Sdobba, da cui si può raggiungere la torre panoramica del Caneo, seguendo il breve sentiero.

Qui, la visuale è ancora più suggestiva, unendo fiume e mare alle montagne sullo sfondo.

Si può decidere di rifare lo stesso percorso per ritornare al punto di partenza e se a piedi risultasse troppo impegnativo, si può noleggiare gratis la bici al Centro visite.

 

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