Carpe diem et in pluvia expectare serenum

Scherzi di luce

Rosso fuoco nel cielo

Falce bianca di luna crescente

Sole riflesso dentro gocce iridee di pioggia sospesa

Giallo e verde di foglie viventi

Rosa magnolia e blu cobalto.

Era sera, tornando a casa

Era mattino, uscendo per strada

Giochi di luce se la ridevano delle tristezze del mondo.

(Sguardo Anonimo)

I ritmi della terra, del sole e dell’uomo

Parafrasando Dante all’inizio del 24° canto dell’Inferno l’imminente arrivo di Febbraio viene così descritto  «In quel periodo dell’anno appena iniziato, quando il sole sotto il segno dell’Acquario riscalda un poco i raggi e le notti iniziano ad accorciarsi, la brina in terra si disegna come fosse neve, ma con tratti di breve durata».

Le giornate già si sono allungate a partire dal 22 dicembre, con il solstizio d’inverno,  e si attende  il mese di “Febbraio, Febbraietto, corto, corto, maledetto”, per citare un detto popolare, che mette in guardia da improvvise temperature rigide e dalle gelate.

Anche gli antichi temevano il gelo. Tra il 22 e 26 gennaio nell’antica Roma avevano luogo le  Feriae sementivae, festa dedicata alla terra durante la quale si  invocavano le divinità affinché le sementi fossero protette dalle gelate e potessero germogliare.

Gennaio è il mese dedicato al dio Giano provvisto di due volti, uno che guarda al passato e l’altro verso il futuro, simbolo emblematico degli inizi, siano essi rappresentati da attraversamenti e passaggi mediante porte, ponti o sorgenti.

Giano, dio degli inizi

 Il dio e il mese a lui attribuito fu associato all’inizio dell’anno, come si intende ora, a partire dal 153 a.C. quando i consoli e i magistrati romani entravano in carica per i dodici mesi successivi.

Con i falò di Sant’Antonio, accesi intorno al 17 Gennaio, si propiziano tuttora i raccolti, che nelle aree più fredde d’Italia avverranno dopo la semina in Gennaio di verze, cavoli, broccoli, rucola, sedano e altre verdure.

Il legame della natura e i suoi ritmi con l’agricoltura e la realtà contadina è quindi strettamente connesso dalla notte dei tempi in ogni parte del mondo. Da quando l’uomo, non più solo nomade e raccoglitore, comprese che diventare stanziale portava con sé alcuni vantaggi. In primis, l’opportunità di dedicarsi alla cura della terra e degli animali in modo più efficiente e produttivo, agevolando scambi, baratti e ricchezza.

Ne consegue che l’agricoltura è sempre stata una delle principali risorse che hanno portato al benessere, fornendo un’insostituibile fonte di sopravvivenza per l’uomo.

Intorno ai prodotti della natura, siano essi coltivati o cresciuti spontaneamente, si sono sviluppati nei millenni e nei secoli svariati riti e tradizioni popolari, utilizzi curativi, decori artistici, produzioni tessili e artigianali. Non sono mancate nemmeno sperimentazioni pionieristiche che nulla hanno a che fare con organismi geneticamente modificati. Un esempio lo fornirono i Gonzaga, Signori di Mantova, i quali si dedicavano alla coltivazione di aranci in Val Padana.

Proiettati nei tempi moderni, densi di inquietanti “proposte alimentari” sintetiche ed esigenze più o meno autentiche rivolte al rispetto dell’ambiente, va ricordato che la fotosintesi, processo vitale per la stragrande maggioranza di ogni tipo di pianta, permette l’assorbimento dell’anidride carbonica e il rilascio di ossigeno.

Quindi, non solo olmo, tiglio, edera, acero, betulla, ginkgo biloba, alloro, corbezzolo, ma anche ciliegio, melo, pesco, prugno e albicocco contribuiscono a pulire l’aria.

Nel frattempo, gettando lo sguardo ai mesi a venire e attingendo alla tradizione popolare, si sappia che è buona cosa tenere in tasca qualche noce per far sì che il vento non disperda il grano e gli altri cereali durante la trebbiatura, vale a dire tra giugno e luglio.


Passo dopo passo, alla fine si arriva sempre da qualche parte. Così disse il saggio.

Sotto cime tempestose o quando il cielo è sempre più blu, com’era verde la mia valle!

Tra fiori rosa e fiori di pesco, la solita strada e i campi da arare. 

Lungo strade di polvere, nulla di nuovo sotto il sole.

Che storia infinita!

Aprite quella porta – con Artemidoro di Daldi

Greco, vissuto nel II sec. d.C., Artemidoro di Daldi si dedicava all’arte dell’interpretazione dei sogni con particolare riferimento al loro potere predittivo, sulla base del principio che “il sogno è verità”.

Una verità che si rivela nel sonno perché “Quando il corpo si riposa, l’anima si muove, e non dormendo essa conosce e vede le cose visibili, ode ciò che si può udire, cammina, tocca, si duole e considera”.

Per questo, il sogno annuncia ciò che è in procinto di accadere.

Filosofo e autore di svariati scritti, tra i quali alcuni sull’interpretazione dei sogni, Artemidoro distingue tra i sogni veri e propri (quelli predittivi) e le immagini rappresentate dalla mente quando il sonno ha il sopravvento. Definiti “insogni”, questi ultimi non hanno alcun carattere premonitore ma ammoniscono sul presente, essendo solo desideri momentanei come l’affamato che sogna di mangiare o l’assettato che sogna di bere. La loro visione è resa possibile dall’effetto che tali bisogni suscitano. Così si esprimono passioni, paure, felicità, tristezza, istinti primari, condizioni fisiche e dell’anima.

Per Artemidoro il sogno è movimento, riferito a qualcosa di positivo o negativo che accadrà a breve o più in là nel tempo, e che l’anima predice con immagini naturali e specifiche per condurre il sognatore verso la conoscenza di contenuti già appresi con l’esperienza reale. Tramite il sogno l’anima esorta il sognatore e riguardare e considerare ciò che egli ha già sperimentato. Tanto da poter affermare che tutti, dopo aver visto e compreso in sogno determinate cose, riscontrano la loro realizzazione o che solo per il fatto di averle sognate si sono effettivamente avverate.

Un’affermazione, questa, che potrebbe trovare la sua parte di verità anche con riferimento alle condizioni di salute del sognatore.

Essendo l’esperienza onirica del tutto personalizzata, strettamente circoscritta al proprio universo individuale, può accadere, ad esempio, che la psiche, liberatasi nel sonno dal vincolo della veglia, riesca a percepire i minimi segnali di una condizione fisica che sfugge all’attenzione quando da svegli si è assorbiti dalla vita razionale.

Ne consegue che il sogno può far presagire l’esordio di un processo infiammatorio, di una malattia che poi si manifesterà realmente.

Allo stesso tempo, la soluzione di una questione reale apparentemente ingarbugliata si può svelare proprio attraverso il sogno, predisponendo il sognatore a comportarsi in un determinato modo.

Secondo Artemidoro i sogni si distinguono in contemplativi, immediatamente concretizzabili, e allegorici, che si realizzeranno nel tempo.

Questi ultimi, ad esempio, sostituiranno l’immagine della propria amata con un cavallo, o un qualsiasi animale femmina, un abito, il mare o altro elemento somigliante alla figura reale, non tanto nelle sembianze fisiche, ma nelle sensazioni che evocano tali allegorie.

I sogni allegorici possono essere di cinque tipi:

  • Sogni propri, quando il sognatore vede sé stesso agire o soffrire e solo a lui accadrà qualcosa di positivo o negativo.
  • Sogni alieni, quando il sognatore vede un altro agire o soffrire e ciò che avverrà riguarderà solo l’altro.
  • Sogni comuni, quando si sognano cose abituali e riconducibili all’esperienza di tutti.
  • Sogni pubblici, che si svolgono in luoghi pubblici, quali un porto, un tempio, una città ecc.
  • Sogni mondani, quando il sole, la luna, i corpi celesti e gli elementi naturali sono assenti o non sono rappresentati nel loro consueto ordine. Definiti anche come “sogni cosmici”, comprendono la visione di eventi naturali catastrofici, con la terra e il mare che si riversano in modo anomalo, creando spaccature, cadute, crolli ecc. Oggi verrebbero interpretati come uno stato di disordine e disorientamento personale del dormiente e della sua difficoltà nel far convivere aspetti tra loro contrastanti. Ma Artemidoro dà loro un significato diverso. Sognare un terremoto, ad esempio, raffigura nella disgregazione degli elementi che si separano e non sono più trattenuti nello stesso luogo, la liberazione dai debiti e dalla prigione, se il sognatore è afflitto da tali problemi,

Artemidoro descrive, poi, i sogni speculativi, in cui ciò che il sognatore vede corrisponde alla realtà. Un esempio viene dato dal marinaio che sogna il naufragio della nave e, svegliatosi a causa del sogno, riesce a mettersi in salvo.

Sebbene i sogni siano opera dell’anima, e Artemidoro li abbia classificati secondo criteri precisi, a volte in modo arzigogolato, altre anticipando le più moderne interpretazioni, non tutti i sogni sono interpretabili. Alcuni elementi, infatti, sono privi di significato e appaiono in sogno solo per arricchire la scenografia. Sarà il contesto e il luogo in cui si svolge la rappresentazione onirica a svelarne il senso, “perché l’anima per ornamento più cose considera, e spesso dalle parti dimostra il tutto”.

Anche sui sogni ricorrenti Artemidoro dice la sua; così come ripetiamo spesso la stessa cosa per darle importanza quando parliamo, allo stesso modo l’anima ripropone più volte ciò che è degno di essere ricordato, vedendone con largo anticipo l’accadimento. Considerando che non sì sta sempre assorti sulle medesime faccende, il lasso di tempo più o meno lungo che intercorre tra un sogno ricorrente e l’altro, viene occupato da altri sogni.

L’origine dei nomi dei contenuti onirici, nello specifico in greco, è per Artemidoro una chiave interpretativa molto importante. Ma se un nome non è conforme alla qualità da esso espresso, si devono considerare altri elementi. Poniamo il caso in cui si sogni una bambina che si chiama Gaia, rappresentata mentre piange. Si dovrà allora tenere conto delle condizioni particolari in cui si trova la persona sognata.

Dagli scritti di Artemidoro pare che sogni tuttora ricorrenti fossero condivisi anche dagli antichi. Uno di questi riguarda i denti. Perderli rappresenta evidentemente un timore atavico visto che esserne privi significa non potersi nutrire in modo adeguato, diventando così vulnerabili e fragili. Ma Artemidoro va oltre, affermando che perdere i denti presagisce la perdita dei beni posseduti oppure di qualcuno, probabilmente un giovane se a cadere sono quelli davanti, di mezza età se cadono i premolari, un anziano se a cadere sono i molari.

I denti che cadono tutti in una volta rappresentano l’abbandono e l’allontanamento dalla casa, considerando la bocca come la dimora delle persone che la abitano, ovvero i denti, che corrispondono agli uomini di più grande valore – quelli di sopra – mentre quelli di sotto raffigurano gli esseri più infimi.

Tuttavia, cambiamenti positivi nella vita del sognatore sono annunciati da denti nuovi al posto di quelli vecchi caduti, purché i nuovi siano migliori di quelli persi. Se i denti caduti erano marci, il sognatore si libererà di ogni fastidio.

Sognare di avere denti d’oro è per i grandi oratori di buon auspicio, in quanto le parole formulate saranno di simile valore.

Altri sogni degli antichi, tuttora comuni, includono quello di volare, come manifestazione di felicità, Più il sognatore vola in alto, senza ali e con il corpo dritto, più si mostra superiore e migliore di chi lo circonda. Volare con le ali porta bene al servo, liberandosi dal giogo del proprio signore.

La vista è uno degli aspetti su cui Artemidoro si sofferma ampiamente, asserendo che sognare di vedere poco equivale a scarsità di denaro. Chi vede meno non riesce a vedere cosa ha davanti, ma se a vedere poco e male è un atleta che corre, ciò è di buon auspicio perché chi corre davanti a tutti non può vedere chi si lascia alle spalle, ovvero i perdenti.

Sognare di non vedere è propizio per il poeta, in quanto non verrà distratto dalla vista di cose e colori e potrà concentrarsi sulla propria arte. Infatti, di Omero, si dice fosse cieco.

Se un navigante sogna di avere tre o quattro occhi, il ritorno in porto sarà assicurato perché gli occhi attraggono luce e splendore. Del resto, sognare di avere un terzo occhio rappresenta il bisogno di avere più luce, non essendo sufficiente la propria.

La nave, importante mezzo di trasporto presso gli antichi, è ricca di significati. Se si spezza e si rovescia in mare o sbatte contro gli scogli presagisce qualcosa di negativo, ma non per il servo. Essendo la nave simile a chi la governa e la comanda, il suo naufragio libererà il subalterno da ogni vincolo.

Meglio sognare navi grandi, perché possono trasportare pesi maggiori piuttosto che piccole ed esposte ai pericoli del mare. Se il sognatore vuole navigare, ma qualcuno o qualcosa glielo impedisce significa che un progetto non andrà in porto.

Molte visioni attingono dal mondo animale per rappresentare innumerevoli significati.

Ingannatori e buffoni appaiono spesso sotto forma di rane, le quali tuttavia portano bene se chi le sogna è abituato a guadagnare. Anche sognare un delfino porta bene perché questa creatura marina va dove il vento è in procinto di alzarsi, permettendo di navigare, ma sognarlo fuori dall’acqua è di cattivo presagio perché annuncia la morte di un caro amico.

Formiche operaie, e non quelle alate, portano bene al contadino, annunciando copiosi raccolti. Infatti, dove non ci sono semi non si vedranno formiche. Per contro, sognare le formiche intorno al corpo è presagio di morte, in quanto figlie della terra, fredde e nere.

Tori, cavalli e cavalle nella loro mandria, ovvero non addomesticati, indicano individui ribelli e superbi.

Il leone, simbolo di forza e potere, presagisce ai sottoposti benefici elargiti da una qualsiasi autorità, ma se è minaccioso porta paura e malattia. I cuccioli di leone annunciano la nascita di figli. Gli animali selvatici in generale rappresentano i nemici, con i quali è sempre meglio uscirne da vincitori piuttosto che vinti. Se un povero sogna di combattere contro una bestia feroce, ne trarrà beneficio, in quanto nutrirà sé stesso e la sua famiglia con le sue carni.

Gru e cicogne sognate nel medesimo stormo annunciano l’assalto di ladri e nemici. Se viste in inverno annunciano vento e pioggia oppure siccità se sognate in estate. Viste da sole sono propizie a mettersi in viaggio perché partono e tornano per loro natura. Favoriscono le nozze e la nascita di figli, soprattutto le cicogne in quanto maschio e femmina accudiscono i loro piccoli.

Le uova, simbolo primordiale della vita, preannunciano profitto perché molto nutrienti, ma se sono numerose minacciano preoccupazioni e problemi con i figli. Infatti, i pulcini raspano la terra alla ricerca di cose nascoste.

Così, mentre il corpo si riposa, l’anima è in perenne movimento e trasformazione, passando tramite una scala da un luogo all’altro, con l’annuncio di un miglioramento o un pericolo. Si svela nell’innocenza di un bambino che fa volare l’aquilone o in una creatura, tanto dolce e amabile nella vita reale, che nel sogno richiama un’inquietante Cappuccetto Rosso mentre si avvia risoluta nel folto del bosco, e non si sa bene se per fare legna o vendicarsi di qualche bestia feroce o torto subito. Ritorna poi placida come l’acqua di un mare calmo o una casa accogliente con il camino acceso, per ritrovarsi senza macchia né paura come un cavaliere medievale, passando per i meandri del proprio castello interiore alla scoperta di tesori inaspettati.

I cento anni della Callas

Una voce formidabile, venuta alla luce già nell’infanzia, ascoltando e cantando sulle note di Rosa Ponselle, soprano classe 1897, e di tre canarini.

Una personalità complessa, condizionata dal rifiuto da parte della madre che desiderava un figlio maschio. La costante propensione materna a usare lei, Cecilia Sophia Anna Maria Kalegeròpulos in arte Maria Callas, al fine di perseguire i propri interessi, sfruttando la “gallina dalle uova d’oro” sin dalla sua tenera età.

Un grande senso di rivalsa, inseguendo e ottenendo il successo, non solo in campo artistico ma anche nel possesso di quei beni simboli e stile di vita comunemente identificati con l’ascesa nella scala sociale; gioielli, tanti, preziosissimi e appariscenti, elegantissimi e sfarzosi abiti di alta moda, frequentazioni da jet set, un matrimonio con un uomo facoltoso, interrotto per diventare l’amante di un ricco e avventuriero armatore che poi la lascerà per un’altra donna. Tutti elementi che non mancherebbero nella più classica delle opere teatrali cantate e musicate.

Una forte volontà e abnegazione nell’apprendere e progredire nel bel canto.

Ma soprattutto un grande bisogno di amore, mai realmente appagato, che colmasse l’ancestrale vuoto affettivo che l’aveva accolta dalla nascita.

Questa, in sintesi, la panoramica su Maria Callas, di cui ricorre il centenario della nascita il 2 Dicembre di quest’anno.

Indimenticabile soprano, passata alla storia come La Divina, che riuscì a fare della sua voce lo strumento di immersione totale nell’arte della musica e dei virtuosismi vocali.

Matilde, l’indomita rossa

Matilde di Canossa

Non tutti i nobili del Medioevo si dedicavano di buon grado alla guerra.

Alcuni di loro, forse molti di più di quanto si possa pensare, avrebbero preferito e anelato il ritiro nella pace dei chiostri tra le mura dei monasteri.

Matilde di Canossa, nonostante fosse battagliera, coltivava un simile anelito. Appartenendo a un elevato lignaggio, la posizione di badessa avrebbe probabilmente fatto al caso suo. In fin dei conti non le sarebbe andata poi così male, per una donna dinamica come lei. Avrebbe potuto continuare ad amministrare i suoi feudi, occuparsi di questioni giuridiche ed economiche, dedicandosi a faccende pratiche – ammesso che ne avesse avuto voglia – e non solo alla spiritualità. 

Infatti, superati i 40 anni, dopo due matrimoni falliti e senza eredi, quell’anelito si stava quasi trasformando in una possibilità concreta. Se non fosse stato per papa Gregorio VII, grande amico e sostenitore che la dissuase e la convinse a restare sulla scena politica, la sua vita avrebbe cambiato decisamente corso.

Evidentemente, il senso del dovere ebbe la meglio. Lo stesso per cui sposò dapprima un uomo, Goffredo il Gobbo, di cui non era innamorata e più tardi un sedicenne, Guelfo di Baviera, di 27 anni più giovane di lei, che a quanto dicono le cronache del tempo non apprezzò la sua femminilità matura.

Entrambi, ovviamente, sposati per “ragion di Stato”. vale a dire per conservare e ampliare i propri domini.

Dal primo se ne andò, facendo armi e bagagli, e non cambiò opinione quando lui  la raggiunse per convincerla a ritornare.  Del secondo, non si fece scrupolo di cacciarlo in  malo modo, sentendosi rifiutata. 

Ciò nonostante, tutta la vita di Matilde sembra seguire il file rouge di un obbligo morale in cui religiosità e ideale politico si mischiavano, agli albori dei grandi cambiamenti della società che da feudale si avviava a organizzarsi in Comuni autonomi, con tutto ciò che ne conseguiva.

Ogni cambiamento, si sa, porta con sé grande fermento, accesi contrasti, strenua difesa del vecchio modello in contrapposizione a quello che va manifestandosi.

Così, Matilde fu fervente e convinta sostenitrice del mondo a cui aveva sempre appartenuto; quello feudale a favore del potere papale rispetto a quello imperiale.

Ma muoversi sulla scena politica e privata senza la presenza di un marito era una condizione molto scomoda e impegnativa che poteva suscitare sospetto, stizza, perfino invidia e malignità.  Tanto che Matilde si prese l’epiteto di femmina pettegola e ficcanaso per interessarsi di cose che non le competevano. Nello specifico, di politica. Altre dicerie insinuarono che l’amicizia  con papa Gregorio VII celasse in realtà una relazione amorosa. Per contro, i suoi seguaci le conferirono un alone di santità nella costante battaglia a favore del potere papale. 

Reazioni, del resto, che non sarebbero tuttora rare, bensì subdolamente serpeggianti nell’eterno stereotipo;  o moglie, o santa, o mondana.

Castello di Bianello (Reggio Emilia), insediamento CanossianoCastello di Bianello (Reggio Emilia), insediamento Canossiano

Fatto sta che la vita per Matilde non fu mai facile, confrontandosi spesso con situazioni alquanto impegnative, di isolamento in ambienti selvaggi e solitudine. Una vita ben lontana da quella che una tipica contessa del tempo avrebbe sperimentato.  Molteplici furono le circostanze in cui la donna doveva essersi sentita sola nei suoi guai. Subito dopo l’assassinio del padre, che avvenne quando lei aveva quasi sei anni, perse il fratellino e la sorellina.

La piccola Matilde imparò presto l’arte della sopravvivenza.

Davanti a sé, un futuro imminente di responsabilità e grane da affrontare insieme alla madre. Il fatto poi che quest’ultima fosse unita con legami di parentela a regnanti germanici, non facilitava di certo la gestione dell’eredità capitata all’improvviso tra capo e collo.

Entrambe avevano ereditato il pesante fardello dei feudi Canossiani in un periodo turbolento, contraddistinto da feroci lotte per le investiture, che vedeva contrapposti il papato e l’impero nella nomina dei propri alti rappresentanti. Entrambe avrebbero preferito rinunciare a tutto e chiudersi in monastero.

All’età di 30 anni, rimasta orfana di madre, toccò a Matilde occuparsi di tutto.

Fu coinvolta direttamente, dal 1080 al 1092, nella lunga e lacerante guerra dalla parte del papa contro l’imperatore. Una guerra, costellata da vittorie, ma anche cocenti sconfitte. Fu accusata di seminare odio tra gli stessi cristiani e dovette confrontarsi con vassalli sempre più interessati a rafforzare il proprio potere, piuttosto che rincorrere i suoi stessi ideali. 

Nel corso degli anni, poi, molti dei suoi sostenitori la tradirono o morirono. 

Sempre in viaggio in lungo e in largo nei suoi vasti possedimenti, dalle terre a nord delle rive del Po fino a quelle laziali, accompagnava le sue truppe. Riposava o trovava rifugio nelle sue numerose, austere fortezze, disseminate su impervie alture o circondate da foreste intricate. A volte era costretta perfino a dormire all’addiaccio, come un soldato.

La storia la racconta come organizzatrice e fautrice di sanguinose battaglie, ma anche come donna soave, raffinata, a tratti malinconica.  Di certo, dotata di un forte spirito di sopravvivenza e autodeterminazione. 

Alla fine, la guerra intrapresa contro l’imperatore, Matilde la vinse, a modo suo.

                                          Castello di Rossena, a difesa di Canossa

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Nell’ottobre del 1092 la rocca di Canossa, assediata dalle truppe imperiali e difesa da quelle numerose che la contessa era riuscita a richiamare nell’ultimo, decisivo tentativo di non farsi sopraffare, sparì improvvisamente, avvolta dalla nebbia. 

Enrico IV, che vi era giunto agguerrito per giocarsi il tutto per tutto, fu costretto a far ritirare i suoi soldati. disorientati e smarriti di fronte alla fortezza fantasma. 

Nel mese di luglio dell’anno 1115 fu la contessa di Canossa a scomparire per sempre, o quasi. 

Dopo una vita in bilico tra l’essere belligerante per vocazione familiare, ideale religioso e politico o senso di dovere, e diventare monaca, aveva realizzato il suo intento; ritirarsi in monastero per condurre una vita contemplativa. forse riflettendo sugli orrori della guerra a cui aveva assistito in prima persona. 

Matilde trascorse tra la pace dei chiostri, ma afflitta dalla gotta, malanno dei benestanti, gli ultimi sprazzi della sua vita. 

La sua salma, probabilmente trattata per renderla eternamente presente, si svelò ancora intatta secoli dopo.

In tre circostanze, nel 1445, agli inizi del 1600 e nel 1644, fu esposta al pubblico che ne rimase impressionato per lo stato di conservazione. 

Tra i capelli ingrigiti della donna, trapassata alla soglia dei settant’anni, spiccavano ancora ciocche di colore rossastro.

Il tetto del Colosseo. Un’idea da copiare?

Difficile immaginarsela oggi, date le condizioni attuali , la copertura escogitata per riparare il pubblico del Colosseo dal caldo o dalla pioggia e dal vento.

Tecnicamente detto “velarium”, che in latino deriva da “velo / tessuto”, il sistema di schermatura si ispirava alle navi.

A una struttura circolare costituita da 240 pali in legno lunghi 23 mt, inseriti in appositi fori e sostegni nella parte superiore del Colosseo era collegata una rete di funi, tenuta insieme nella parte finale da una corda ad anello. All’occorrenza l’insieme dei teli in lino veniva così srotolato o riavvolto, mediante l’azionamento delle funi.

Altre funi legate sulla sommità dei pali e fissate alle grandi pietre a terra intorno al Colosseo, tuttora visibili, servivano per controbilanciare la tensione e il peso dell’enorme rete.

Ma questo marchingegno non era l’unico ad entusiasmare il pubblico, l’imperatore e il suo seguito, fine ultimo dell’enorme investimento economico che girava intorno al Colosseo.

Per rinfrescare nelle torride giornate romane, veniva dispersa una nebulizzazione regolare che sfruttava l’aria per distribuire l’acqua mediante pressione.

In un grande serbatoio colmo d’acqua veniva inserito un lungo tubo, che spingeva l’acqua in due serbatoi laterali. Al loro interno, due pistoni si muovevano alternativamente e regolarmente grazie all’oscillazione di un braccio che li collegava nella loro parte superiore.

Veniva così prodotta una pressione regolare e costante, che spingeva l’acqua nel lungo tubo e la erogava dall’alto in modo continuativo.

Soluzioni a costo zero, si potrebbe concludere, che allora consentivano agli astanti di godersi in modo più confortevole spettacoli che oggi parrebbero, come minimo e in molti casi, di cattivo gusto.

Ma tant’è, questo ci racconta la storia e ciò che è stato; genio e brutalità, bellezza e crudeltà.

Del resto, tra mille o duemila anni chissà cosa si dirà di oggi…

Dalle stelle alle stalle

Nel silenzio della calura pomeridiana estiva la musica e le parole della famosa “Come vorrei che tu fossi qui” ,  aleggiavano, sparate a palla sul confine agro-cementizio della metropoli.

Pochi metri più in là, oltre il lato urbano, numerosi ettari di terra sopravvivono,  che  per sfatare il mito della metropoli  fredda, crudele e frenetica, vengono ancora lavorati  e coltivati con passione e abnegazione.

Tanto  che l’odore dello stallatico autentico è stato ben accettato dalle genti urbane al di là dal confine agricolo.

Tra alberi secolari, o quasi, e correnti naturali, l’antica cascina che, oltre ad occuparsi  dell’attività agricola,  alleva mucche, vende al dettaglio latte appena munto e yogurt, a detta di molti, strepitoso.

Quando il brano, udibile da tutti lì intorno, era giunto al termine e seguito dagli applausi registrati, si è levato alto  un muggito che pareva proprio di apprezzamento.

Era un “muhhhh” proprio convinto, quasi a dire, – Che, ce lo fai sentire ancora?

Resta ignota l’origine della musica, che a detta dei proprietari dei quadrupedi non proveniva da loro.

Chissà, forse il prossimo yogurt sarà ancora più buono.

Eppure il vento…

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